Patrizia Moradei, persona che da anni è in prima linea nella difesa delle persone con disabilità, ci ha mandato questa cronaca, scritta con quella ironia che la contraddistingue, di una situazione paradossale che purtroppo capita di vivere negli ospedali italiani ai tempi dei tagli e del profitto. Volentieri la pubblichiamo.
Ero stata tutto il giorno il primo di agosto a patire come una bestia, ma ero decisa a non tornarci in ospedale. Così appena suonarono le otto di sera cominciai a cercare il medico di guardia. Che a Fosdinovo non si trova più. E se non fosse stato per la buona volontà di un operatore del 118 starei ancora a cercare perché al numero che mi avevano dato non rispondeva nessuno e alla fine rispondevano dal 118 e mi dicevano di riprovare.
Venne da Avenza facendomi un po’ di difficoltà perché ero sola e che mi cercassi subito un’amica se poi c’erano da andare a comprare medicine. E perché ero sola? e così di seguito.
Mi ha anche consigliato di prendermi un gatto, che fanno tanto compagnia! (Gli ho risposto che l’anno scorso avevo un uomo. Se appena mi rimetto in piedi, glielo do io il gatto!)
Mi fece l’impegnativa per l’ospedale perché disse che sospettava un blocco intestinale, anche se io non ci credetti perché avevo la pancia trattabile.
Né volli che chiamasse l’autoambulanza perché ero devastata dallo stare male e distrutta dagli sforzi che mi erano costati convincerlo a venire nonostante vivessi da sola e trovare un’amica disponibile a quell’ora come mi aveva chiesto, per cui mi buttai sul letto e cercai di riprendere un po’ fiato.
Ma riposai poco per il dolore allo stomaco, per cui di prima mattina decisi di chiamare l’autoambulanza, visto che non stavo in piedi dalla nausea e il giramento di testa.
Ovviamente non sono nuova a situazioni del genere e sono preoccupata perché temo sia per l’intestino, plurioperato e che ha subito l’asportazione del sigma per un T3, sia per lo stomaco, non tanto per l’ernia che c’è e fa male ma soprattutto perché ho avuto una pancreatite acuta.
Dunque partenza prima delle otto di mattina, fermata con cambio di autoambulanza alla stazione da dove partono e dove mi ha vista una dottoressa che per fortuna mi ha messo una flebo con gastroprotettore, e ripartenza per l’ospedale apuano dove siamo arrivati con codice giallo alle 9,29.
Parcheggiata nell’ingresso senza nessuno che mi prenda in considerazione. Però vedo che scrivono. Ne approfitto per appisolarmi un po’, anche perché il dolore un po’ sta passando.
Dopo tanto mi spostano in una stanza. Dopo altrettanto tanto arrivano per un elettrocardiogramma. Sempre dopo il medesimo intervallo di tempo prelievo venoso.
Dopo di che l’oblìo più completo. Penso che aspettino l’esito degli esami del sangue e di essere in lista per le solite radiografie e ecografia.
Sia il medico di guardia che la dottoressa dell’autoambulanza mi hanno consigliata di ricoverarmi per fare la colonscopia perché la preparazione con lo stomaco nelle mie condizioni è impensabile che possa farla a casa. Tanto più che ultimamente ho di nuovo avuto una crisi cardiaca.
Aspetto e aspetto finché a mezzogiorno passato non vedo passare una che dallo stetoscopio dovrebbe essere una dottoressa e le chiedo un po’ che intenzioni hanno. Mi risponde che siccome le analisi del sangue escludono una pancreatite in corso – Grazie tante! i dolori me li ricordo e se in quel momento da uno a dieci soffro nove, ricordo però che per quelli della pancreatite non ci sono parametri, tant’è che le bestie le abbattono perché tentano di suicidarsi da sole! – e nemmeno è in atto un blocco intestinale, per cui MI DIMETTONO!
Così, sulla fiducia, senza nemmeno uno straccio di visita!
A dire la verità non aspetto altro. Sto così male negli ospedali che preferisco andare a morire un po’ più in là. Che poi le analisi del sangue vadano bene mi inorgoglisce addirittura: nello stato in cui sono ridotta son soddisfazioni anche quelle!
Chiedo l’autoambulanza per tornare fra i miei monti, poi penserò a come risolvere la situazione.
Mi vengono a rispondere che devo pagare l’autoambulanza.
Dico che ho un’invalidità del cento per cento definitiva e grossi problemi di deambulazione e di stazione eretta per seri problemi alla schiena, sono sicura che ne ho diritto.
Dopo un po’ mi vengono a riferire che è perché ho la residenza a Firenze, per cui devo pagare.
Va bene. Cioè no, ma mi riservo di contestare la richiesta di pagamento che immagino mi verrà mandata a casa.
No, non è così, devo pagare subito.
Va bene anche quello, contesterò dopo. Se mi rimarrà il fiato.
Però devo pagare alla partenza. Faccio presente che i soldi non li ho, anche perché ultimamente stando male non sono potuta andare alla posta a prelevarli dalla mia posta pay.
La dottoressa mi dice che la fa chiamare e io aspetto.
Alle cinque, anche perché non spero di ottenere da loro il mio farmaco salvavita per il cuore che prendo a quell’ora – in tutto il tempo che sono stata lì non ho avuto né da mangiare, ma quello si può capire, ma neanche da bere – chiedo a che punto siamo con l’autoambulanza e mi viene risposto che non vengono perché io non pago e sono residente a Firenze.
Le mie forze si vanno esaurendo e non so più cosa fare. Chiedo che mi venga tolto l’ago, dal momento che sono stata dimessa. SI RIFIUTANO, finché non viene l’autoambulanza a prendermi.
Ne ho sentite tante in tanti anni, come quella a Firenze che mi disse dopo aver fissato telefonicamente delle analisi domiciliari che ora dovevo solo andare alla sede cup per firmare!
Kafkiano!
Comunque pare che sia in torto io. Perché ho la residenza a Firenze?
Un’infermiera si permette, nonostante io abbia cercato di interromperla perché avevo già capito dove andava a parare con un attenta a quello che sta dicendo – in realtà era un grido di dolore: non sa quello che dice! Son più di cinquant’anni che soffro – di tirar fuori questo capolavoro di giudizio: LE AUTOAMBULANZE SERVONO PER QUELLI CHE STANNO MALE VERAMENTE, NON SONO TAXI!
Non voglio nemmeno sapere il suo nome. Non voglio la sua testa, non saprei sinceramente che farmene. Mi addolora talmente il fatto che fare il lavoro che fa non le abbia insegnato così tanto niente.
Non ho un telefonino – da queste parti non prendono. Però nella casa dove sono adesso ho ben due linee telefoniche, anche se il più delle volte sono fuori uso contemporaneamente, e la linea per il computer senza il quale sarei al perso.
Chiedo di usare un telefono e chiamo il 112. Una dottoressa me lo strappa di mano mentre sto spiegando che non so come tornare a casa e che non posso uscire perché si rifiutano di togliermi l’ago.
Al posto di polizia del Pronto Soccorso non c’è nessuno. Non c’è un responsabile, non c’è un primario.
Vado nella sala di attesa dove sono accatastati tutti i parenti e chiedo se mi fanno usare un telefonino. Mi guardano come se fossi fuori di testa (perché non ho un telefonino?).
In effetti non sono nella mia forma migliore: sto per svenirmi per la debolezza e lo stress.
Comunque me lo prestano, così chiamo il 113 che mi passa il 112 che mi passa il 118, così sono punto e da capo.
Per pura disperazione faccio il numero del mio si fa per dire vicino del paese – lassù il concetto di vicinanza è diverso dalla città – che non dovrebbe essere per niente a casa, ma adesso l’unica mia speranza di uscirne viva è un miracolo.
Non si sente niente perché nei pronto soccorso i telefonini non prendono. Mai!
Mi risponde, è lì per caso, e riesco a dirgli che sono all’ospedale, che per carità mi venga a prendere.
Sento solo vengo aspettami e poi la linea cade.
Torno verso la barella esausta. E NON CE LA TROVO PIU’!
Me l’hanno tolta da sotto il sedere in un attimo. E NON MI HANNO ANCORA DIMESSA! Perché quel maledetto ago ce l’ho ancora nel braccio.
Non rimangono che le sedie della sala d’aspetto, dure e piatte dove so che non potrò resistere con la mia schiena.
Chiedo a una volontaria dov’è un bar: ho sete e dovrei mandar giù qualcosa, sono magrissima e non ho riserve.
Per andare al bar devo uscire a fare tutto il giro dell’ospedale. Ma io non posso uscire, e neanche ce la posso fare a fare il giro dell’ospedale.
Ovviamente la volontaria non si offre di andarmi a prendere qualcosa, ma non mi stupisce: magari si sta divertendo di più lì, o semplicemente le fa fatica, oppure ha appena adocchiato un bell’infermiere.
Per stare male ci vuole un fisico bestiale!
Chiedo di una macchinetta, che è fuori della sala d’attesa. Scelgo un tè perché è l’unica cosa che posso bere e perlomeno, penso, c’è tanto zucchero e mi arriva un bicchierino pieno di acqua calda senza tè e senza zucchero.
Bevo perfino quella!
Mi ha detto aspettami e io lo aspetto, pur sapendo che non sa neppure dove sono, ma a questo punto non posso fare altro, non ne ho più le forze.
Ho la schiena a pezzi, le caviglie che non ce la fanno più a sostenermi.
A un certo punto non ce l’ho più fatta nemmeno ad aspettare, ho fermato il primo infermiere e gli ho detto mi tolga quest’ago! Non so perché ma l’ha fatto: forse hanno cominciato a ripensarci oppure lui singolarmente ha deciso che che se poi li denunciavo non ci vuole entrare, comunque me l’ha finalmente levato.
Mi sono diretta alla porta e sono uscita. E ho visto Sauro che mi era venuto a prendere. Non so come, ma c’era.
MORALE: se si sta male bisogna tenersi lontano dagli ospedali perché ti portano via il poco di energia che ti rimane.
Fanno sempre i soliti esami a tutti sapendo solo che hanno l’ordine di sbatterti fuori e nel minor tempo possibile.
Sono una macchina per giustificare le spese che paga il contribuente e che permette a tanta gente di arricchirsi. Gli infermieri sia che abbiano capito o no che sono stati presi in un ingranaggio reagiscono sfogando la loro frustrazione con i poveracci che capitano loro sotto le mani, tanto non siamo nemmeno persone. Un infermiere che doveva andare ad informarsi a proposito della prima ambulanza che poi nessuno aveva chiamato ha guardato il mio nome sul foglio di dimissione invece di chiedermelo!
E chiudono i piccoli ospedali dove si lavora con serenità e c’è perfino collaborazione fra medici e pazienti, dove perfino gli infermieri (ma ce l’hanno poi una personalità autonoma o vengono automatizzati dal loro tipo di formazione?) sono gentili solo perché quella è l’aria che respirano.
Dove magari si rischia anche che ti salvino la vita. Non come ho letto stamattina in cronaca locale col titolo a tutta pagina di quella bambina di tre anni che è morta: era stata appena dimessa dall’ospedale!
Patrizia Moradei
Pulica di Fosdinovo, 3 agosto 2016