Nel contesto dell’intervento militare francese in Mali, il blog les-crises.fr ha ripreso l’intervista fatta a Noam Chomsky da Geov Parrish il 23 dicembre 2005 per WorkingforChange.
Ci sembra che quanto espresso in questa intervista corrisponda al momento attuale, dove un presidente decide una guerra da solo, senza consultare il Parlamento e la popolazione.
Il commento di Patrick-Louis Vincent sintetizza la situazione dal punto di vista degli interessi politici ed economici:
“Non siamo ancora una volta ingenui. L’intervento militare francese non ha fondamenti umanitari o democratici. L’avanzata degli islamici verso Bamako metteva in pericolo gli interessi della società Areva, di proprietà all’80% dello stato francese, che ha delle mire sullo sfruttamento di una miniera di uranio nel sud-est del Mali. Un accordo in questo senso è stato firmato con il governo maliano. Perché questo accordo, fondamentale per l’industria nucleare francese, potesse tradursi in pratica, era fondamentale che il governo maliano restasse al potere. L’intervento militare ha dimostrato la fretta di assicurare questo obiettivo. E’ funzionale agli affari del governo maliano, inefficiente e corrotto e agli interessi della potente lobby nucleare francese.
Se non fossero stati in gioco i suoi interessi economici e industriali, la Francia non sarebbe mai intervenuta e avrebbe lasciato che gli islamici prendessero il potere in Mali.
Bisogna sempre chiedersi a chi giova un crimine. Il Qatar ha messo le mani sul petrolio libico, gli americani sull’oro libico e i francesi sull’uranio maliano.”
Da oltre 40 anni il professore del MIT Noam Chomsky è uno tra i più importanti intellettuali mondiali a criticare la politica estera degli Stati Uniti. Oggi, con l’ultima avventura imperiale americana in difficoltà sia dal punto di vista politico che militare, Chomsky – che ha compiuto 77 anni due settimane fa – giura che non rallenterà “fintanto che potrà deambulare”. Ha parlato con me al telefono il 9 dicembre e di nuovo il 20, dal suo ufficio di Cambridge.
Geov Parrish: George Bush è in difficoltà politicamente? Se sì, perché?
Noam Chomsky: George Bush avrebbe seri problemi politici se nel paese ci fosse un partito all’opposizione. Praticamente ogni giorno sono loro stessi a tirarsi la zappa sui piedi. Il fatto che colpisce nell’attuale politica americana è che i democratici non stanno guadagnando quasi nulla da tutto ciò. L’unico loro guadagno è che i repubblicani stanno perdendo sostegno. Ora, di nuovo, un partito di opposizione ci andrebbe a nozze, ma i democratici sono così vicini alla politica dei repubblicani che non possono fare niente. Quando cercano di dire qualcosa sull’Iraq, George Bush si gira, o Karl Rove si gira, e dice: “Come potete criticare? Tutti voi avete votato a favore.” Beh, in sostanza hanno ragione.
GP: A questo punto i democratici come potrebbero distinguersi, dato che sono già caduti in questa trappola?
NC: I democratici leggono i sondaggi meglio di me, la loro leadership. Sanno cos’è l’opinione pubblica. Potrebbero prendere una posizione sostenuta dall’opinione pubblica, anziché una contro. Così potrebbero diventare un partito di opposizione e un partito di maggioranza. Ma poi dovrebbero cambiare la loro posizione quasi su tutto.
Prendiamo, vediamo un po’… parliamo ad esempio dell’assistenza sanitaria, probabilmente il principale problema interno per le persone. La grande maggioranza della popolazione è a favore di un qualsiasi tipo di sistema sanitario nazionale e questo è vero da lungo tempo. Ma quando la questione emerge – talvolta citata dalla stampa – si dice “politicamente impossibile” o si parla di “mancanza di sostegno politico”, che è un modo per dire che il settore assicurativo non lo vuole, le multinazionali farmaceutiche non lo vogliono e così via. Ok, quindi la maggior parte della popolazione lo vuole, ma a chi importa di loro? Beh, i democratici sono uguali. Clinton se ne è venuto fuori con uno schema assurdo, così complicato che non si riusciva a capire ed ha fallito.
Kerry alle ultime elezioni: nell’ultima discussione delle elezioni, credo fosse il 28 ottobre, ci si aspettava che il dibattito vertesse su questioni interne. E il New York Times ne ha fatta una buona relazione il giorno successivo. Ha sottolineato, giustamente, che Kerry non ha mail sollevato alcun eventuale coinvolgimento del governo riguardo al sistema sanitario, perché “manca di sostegno politico.” E’ il loro modo di dire e la maniera di Kerry di comprendere, che sostegno politico significa appoggio dei ricchi e dei potenti. Beh, questo non deve essere ciò che sono i democratici. Ci si può immaginare un partito di opposizione fondato sugli interessi e le preoccupazioni popolari.
GP: Data la mancanza di differenze sostanziali nella politica estera delle due parti –
NC: o interna.
GP: Sì, o interna. Ma sto impostando la questione sulla politica estera. Siamo in fase di realizzazione di uno stato di guerra permanente?
NC: Non penso. Nessuno vuole davvero la guerra, quello che vuoi è la vittoria. Prendete, ad esempio, l’America Centrale. Nel 1980 l’America Centrale era fuori controllo. Gli Stati Uniti hanno dovuto combattere una feroce guerra terrorista in Nicaragua, hanno dovuto sostenere stati terroristi assassini nel Salvador, in Guatemala e in Honduras, ma quello era uno stato di guerra. Va bene, i terroristi hanno avuto successo. Ora è più o meno pacifica. Quindi non si sa più niente dell’America Centrale perché è pacifica. Voglio dire, sofferente, miserabile e così via, ma pacifica. Quindi non c’è uno stato di guerra. E lo stesso altrove. Se si riesce a tenere la gente sotto controllo, non c’è uno stato di guerra.
Prendete, ad esempio, la Russia e l’Europa dell’Est. La Russia è corsa dietro all’Europa orientale per quasi mezzo secolo con un intervento militare limitato. Di tanto in tanto dovevano invadere Berlino Est, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, ma la maggior parte del tempo la situazione era tranquilla. Pensavano che tutto andasse bene – gestito da forze di sicurezza locali, da esponenti politici locali, nessun grande problema. Questo non è uno permanente stato di guerra.
GP: Nella Guerra al Terrore, però, come si fa a definire la vittoria contro una tattica? Non ci si arriva mai.
NC: Ci sono gradazioni. Ad esempio, è possibile misurare il numero di attacchi terroristici. Beh, quello è decisamente aumentato sotto l’amministrazione Bush, molto bruscamente dopo la guerra in Iraq. Come previsto: era stato anticipato da agenzie di intelligence che la guerra in Iraq avrebbe aumentato le probabilità di terrore. Le stime post-invasione della CIA, del National Intelligence Council e di altre agenzie di intelligence sono esattamente queste. Sì, hanno aumentato il terrore. In realtà, hanno anche creato qualcosa che non è mai esistito: un nuovo terreno di formazione per i terroristi, molto più sofisticato dell’Afghanistan, dove addestravano terroristi di professione perché andassero nei loro paesi. Quindi, sì, questo è un modo per affrontare la Guerra al Terrore, vale a dire aumentare il terrore e il modo per misurarlo è ovvio: il numero di attacchi terroristici. Sì, sono riusciti ad aumentare il terrore.
Il punto è che la Guerra al Terrore non esiste. Si tratta di una considerazione minore. Così l’invasione dell’Iraq e il controllo delle risorse energetiche mondiali erano molto più importanti della minaccia del terrore. E la stessa cosa con altre questioni. Prendete, per esempio, il terrore nucleare. I sistemi di intelligence americani stimano che la probabilità di una “bomba sporca”, uno sporco attacco con una bomba nucleare negli Stati Uniti nei prossimi dieci anni, sia di circa il 50 per cento. Beh, è piuttosto alta. Stanno facendo qualcosa a riguardo? Già. Stanno facendo crescere la minaccia aumentando la proliferazione nucleare, costringendo potenziali avversari a prendere misure molto pericolose per cercare di contrastare le crescenti minacce americane.
A volte si discute anche di questo, lo si può trovare nella letteratura che tratta di analisi strategiche. Prendete di nuovo, per esempio, l’invasione dell’Iraq. Ci è stato detto che non hanno trovato armi di distruzione di massa. Beh, non è proprio corretto. Hanno trovato armi di distruzione di massa e cioè quelle che erano state inviate a Saddam dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e da altri intorno agli anni ‘80. Molte di queste erano ancora lì. Erano sotto il controllo degli ispettori delle Nazioni Unite ed erano in fase di smantellamento, ma molte erano ancora lì. Quando gli Stati Uniti hanno cominciato l’invasione, gli ispettori sono stati cacciati e Rumsfeld e Cheney non hanno detto alle loro truppe di fare la guardia ai siti. Così i siti sono stati lasciati incustoditi e sono stati sistematicamente saccheggiati. Gli ispettori delle Nazioni Unite hanno continuato il loro lavoro tramite il satellite e hanno identificato più di 100 siti sistematicamente saccheggiati e non con qualcuno che entra e ruba qualcosa, ma attentamente, sistematicamente saccheggiati.
GP: Da persone che sapevano ciò che stavano facendo.
NC: Già, persone che sapevano ciò che stavano facendo. Significava che stavano prendendo le attrezzature di alta precisione che si possono utilizzare per le armi nucleari e i missili, pericolose biotossine, ogni genere di cose. Nessuno sa dove siano finite, ma si sa, è odioso pensarci. Beh, questo in sostanza è ciò che si chiama aumento della minaccia del terrore. La Russia ha fortemente aumentato la sua capacità di offensiva militare in risposta ai programmi di Bush, cosa abbastanza pericolosa, ma anche per cercare di contrastare lo schiacciante dominio degli Stati Uniti dal punto di vista della capacità offensiva. Sono costretti a spedire missili nucleari in tutto il loro vasto territorio, per lo più incustodito e la CIA è perfettamente consapevole del fatto che i ribelli ceceni stanno ispezionando installazioni ferroviarie russe, probabilmente con un piano per cercare di rubare i missili nucleari. Beh, certo, potrebbe essere un’apocalisse. Ma stanno aumentando quella minaccia, perché a loro non importa più di tanto.
Lo stesso con il riscaldamento globale. Non sono stupidi. Sanno che stanno aumentando la minaccia di una seria catastrofe. Ma questo a una generazione o due di distanza. Chi se ne importa? Ci sono fondamentalmente due principi che definiscono le politiche dell’amministrazione Bush: riempire di dollari le tasche dei suoi amici ricchi e aumentare il controllo sul mondo. Quasi tutto consegue da ciò. Se succede di far saltare in aria il mondo, beh, sai, è affare di qualcun altro. Cose che capitano, come ha detto Rumsfeld.
GP: Lei ha seguito le tracce delle guerre di aggressione all’estero degli Stati Uniti dai tempi del Vietnam e ora siamo all’Iraq. Pensa che ci sarà qualche possibilità, visto il fiasco che è stato, che in seguito si verifichino cambiamenti fondamentali nella politica estera degli Stati Uniti? Se sì, come si arriverebbe a tanto?
NC: Beh, ci sono cambiamenti significativi. Confronti, per esempio, la guerra in Iraq con la guerra in Vietnam di 40 anni fa. C’è un cambiamento abbastanza significativo. L’opposizione alla guerra in Iraq è di gran lunga superiore a quella contro la guerra in Vietnam, che era molto peggiore. L’Iraq è, penso, la prima guerra nella storia dell’imperialismo europeo, includendo gli Stati Uniti, dove ci sia stata una protesta di massa prima che la guerra fosse ufficialmente lanciata. Con il Vietnam ci sono voluti quattro o cinque anni prima che ci fosse una qualsiasi protesta visibile. La protesta era così debole che nessuno si ricorda neanche, o sa, che Kennedy attaccò il Vietnam del Sud nel 1962. E’ stato un grave attacco e si è verificato anni prima che la protesta finalmente si sviluppasse.
GP: Cosa pensa che si dovrebbe fare in Iraq?
NC: Beh, la prima cosa che si dovrebbe fare in Iraq è prendere sul serio quello che sta accadendo. In tutto lo spettro non c’è quasi nessuna discussione seria, mi dispiace dirlo, sulla questione del ritiro. La ragione è che in Occidente sottostiamo a una dottrina rigida, un fanatismo religioso, che dice che dobbiamo credere che gli Stati Uniti avrebbero invaso l’Iraq anche se i suoi prodotti principali fossero stati lattuga e sottaceti e le risorse petrolifere mondiali fossero state in Africa centrale. Chiunque non creda ciò è condannato come teorico della cospirazione, marxista, pazzo, o qualcosa del genere. Beh, se hai tre neuroni che ti funzionano, sai perfettamente che si tratta di una sciocchezza. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq perché ha enormi risorse petrolifere, in gran parte non sfruttate e si trova proprio nel cuore del sistema energetico mondiale. Il che significa che se gli Stati Uniti riescono a controllare l’Iraq, estendono enormemente il proprio potere strategico, quello che Zbigniew Brzezinski chiama la loro “influenza critica” in Europa e in Asia. Sì, questo è uno dei motivi principali per il controllo delle risorse petrolifere: ti dà potere strategico. C’è la volontà di farlo anche se si sta sulle energie rinnovabili. Così, questo è il motivo dell’invasione dell’Iraq, la ragione fondamentale.
Ora parliamo di ritiro. Prendiamo ogni giorno qualunque quotidiano, o rivista, eccetera. Cominciano a dire che gli Stati Uniti si propongono di arrivare a un Iraq sovrano, democratico e indipendente. Voglio dire, è anche solo una remota possibilità? Basta prendere in considerazione quelle che probabilmente sarebbero le politiche di un Iraq indipendente e sovrano. Se fosse più o meno democratico, si avrebbe una maggioranza sciita. Loro, naturalmente, vorrebbero migliorare i loro legami con l’Iran, l’Iran sciita. La maggior parte del clero proviene dall’Iran. La Brigata Badr, che in pratica gestisce il Sud, è addestrata in Iran. Hanno strette e ragionevoli relazioni economiche che aumenterebbero. Così si otterrebbe un’ampia alleanza Iracheno-iraniana. Inoltre, proprio a ridosso del confine con l’Arabia Saudita, c’è una popolazione sciita che è stata aspramente oppressa dalla tirannia fondamentalista spalleggiata dagli USA. E qualunque azione che puntasse all’indipendenza in Iraq andrebbe sicuramente a stimolarli, sta già accadendo. Questo sembra accadere dove si trova la maggior parte del petrolio saudita. Ok, quindi si può solo immaginare il peggiore incubo di Washington: un’alleanza sciita allargata che controlla la maggior parte del petrolio mondiale, indipendente da Washington e, probabilmente, rivolta a Oriente, dove la Cina e gli altri sono bramosi di creare relazioni con loro, cosa che stanno già facendo. E’ mai concepibile? Per come stanno le cose ora, gli Stati Uniti farebbero una guerra nucleare prima di acconsentire a una cosa simile.
Quindi, ogni discussione sul ritiro dall’Iraq deve almeno entrare nel mondo reale, il che significa, per lo meno, prendere in considerazione questi problemi. Basta dare uno sguardo ai commenti, negli Stati Uniti, lungo tutto lo spettro. Che discussione vede su questi problemi? Beh, più o meno zero, il che significa che la discussione è su Marte. E c’è una ragione per questo. Non siamo autorizzati ad ammettere che i nostri leader hanno razionali interessi imperiali. Dobbiamo presumere che sono di buon cuore e maldestri. Ma non lo sono. Sono perfettamente ragionevoli. Sono in grado di capire ciò che chiunque altro può capire. Quindi il primo passo per parlare di ritiro è: prendere in considerazione la situazione attuale, non una situazione da sogno in cui Bush sta perseguendo una visione di democrazia, o qualcosa del genere. Se siamo in grado di entrare nel mondo reale possiamo cominciare a parlarne. Sì, penso che ci dovrebbe essere un ritiro, ma dobbiamo parlarne nel mondo reale e sapere ciò che la Casa Bianca sta pensando. Non sono disposti a vivere in un mondo di sogno.
GP: In che modo gli Stati Uniti avranno a che fare con la Cina come superpotenza?
NC: Qual è il problema della Cina?
GP: Beh, la competizione per le risorse, per esempio.
NC: Beh, se credi nei mercati nel modo in cui ci si aspetta, competono per le risorse attraverso il mercato. Allora qual è il problema? Il problema è che agli Stati Uniti non piace il modo in cui la cosa si sta manifestando. Beh, peccato. A chi è mai piaciuto come stanno le cose quando non stai vincendo? La Cina non è una minaccia qualsiasi. Possiamo farne una minaccia. Se si aumentano le minacce militari contro la Cina, allora risponderà. E lo stanno già facendo. Risponderà costruendo la propria forza militare, la propria capacità offensiva militare e questa è una minaccia. Quindi, sì, si può costringerli a diventare una minaccia.
GP: Qual è il suo più grande rimpianto in 40 anni di attivismo politico? Lei cosa avrebbe fatto diversamente?
NC: Avrei fatto di più. Perché i problemi sono così gravi e travolgenti che è vergognoso non fare di più.
GP: Cosa le dà speranza?
NC: Ciò che mi dà veramente speranza è l’opinione pubblica. L’opinione pubblica negli Stati Uniti è molto ben studiata, si sa molto su di essa. Raramente viene riportata, ma la conosciamo. E si scopre, sa, che mi trovo più o meno nella corrente principale dell’opinione pubblica sulla maggior parte delle questioni. Non su alcune, non sul controllo delle armi, o sul creazionismo o qualcosa del genere, ma sulla maggior parte delle questioni cruciali, quelle di cui abbiamo parlato, mi trovo magari piuttosto verso il punto critico finale, ma entro lo spettro dell’opinione pubblica. Penso che sia un segno di grande speranza. Gli Stati Uniti dovrebbero essere un paradiso organizzativo.
GP: Che tipo di organizzazione ci dovrebbe essere per cercare di cambiare alcune di queste politiche?
NC: Beh, c’è una base per il cambiamento democratico. Prenda quello che è successo in Bolivia un paio di giorni fa. Come ha potuto farsi eleggere un leader indigeno di sinistra? Poteva presentarsi alle urne una volta ogni quattro anni dicendo: “Votate per me!”? No. E’ perché ci sono organizzazioni popolari di massa che lavorano tutto il tempo su tutto, dal blocco alla privatizzazione dell’acqua alle risorse, a questioni locali e così via e sono in realtà delle organizzazioni partecipative. Beh, questa è democrazia. Siamo molto lontani da ciò. Questo è un compito da organizzare.
Traduzione del testo originale dell’intervista in inglese di Matilde Mirabella