Il bicameralismo è soltanto una perdita di tempo: se una legge viene approvata dalla Camera dei deputati, perché deve riapprovarla il Senato? Così dicono i sostenitori del progetto di revisione costituzionale, promettendo di mettere fine alla cosiddetta “navetta”, cioè il fatto che le leggi possano andare avanti e indietro da un ramo all’altro del Parlamento, a causa delle modifiche eventualmente apportate al testo originario. Peccato che i sostenitori di una velocizzazione della procedura legislativa non indichino i dati da cui sorge tale necessità.
Se andiamo a leggere i dati ufficiali del Servizio studi del Senato (riportati sul sito di Magistratura democratica), apprendiamo che nella scorsa legislatura, dal 2008 al 2013, il Parlamento ha approvato complessivamente 391 leggi, cioè in media 78 normative all’anno, cioè una legge ogni 5 giorni. Di queste 391 leggi, 301 sono state approvate in doppia lettura senza cambiamenti. In cinque anni soltanto 90 leggi hanno subito modifiche nell’iter legislativo: di queste ben 75 hanno richiesto soltanto la terza lettura. In questi 75 casi è logico ipotizzare che il cambiamento della norma sia stata opportuno, visto che poi è stato confermato da chi in origine aveva predisposto il disegno di legge. Sono soltanto 12 i casi di normative che hanno richiesto quattro letture, cioè una doppia modifica e soltanto 3 quelli con più di quattro letture. Insomma, se togliamo i casi di correzioni di errori e di modifiche migliorative (per i quali la navetta è probabilmente stata utile e opportuna), le leggi che in cinque anni hanno visto una divergenza di opinioni tra Camera e Senato sono davvero minime (e sarebbe interessante indagare più a fondo le motivazioni).
In ogni caso, considerati questi dati, è palese che il problema del cosiddetto “ping-pong” tra i rami del Parlamento è di fatto inconsistente, a tal punto da insinuare il sospetto che si tratti di una leggenda messa in circolazione in modo strumentale. Per non dire della presunta maggiore velocità nella produzione legislativa che si avrebbe con l’approvazione della riforma costituzionale, dato che la maggior parte delle leggi verrebbero approvate soltanto dalla Camera. Si dimentica che ai senatori verrebbe attribuita la facoltà di proporre modifiche alle leggi approvate dai deputati entro determinati tempi, per poi sottoporre nuovamente la norma emendata alla Camera. Paradossalmente, se la maggioranza del Senato fosse diversa da quella della Camera (il che – vista la diversa modalità di composizione dei due rami del Parlamento – è possibile e persino probabile), potremmo assistere una “navetta” per ciascuna legge, in cui la triplice lettura sarebbe la prassi.
A tutto ciò si potrebbe obiettare che il vero problema stia nella velocità di approvazione dei decreti o disegni di legge di fonte governativa da parte del Parlamento. Anche in questo caso i dati (fonte: “Il Governo in Parlamento XVI legislatura”) smentiscono chi sostiene che il Parlamento di fatto costituisca un intralcio all’attività del Governo (per altro si tratta di un punto di vista di scarsa e dubbia costituzionalità…). Infatti, nella scorsa legislatura i Governi che si sono succeduti (Berlusconi e Monti) hanno avuto notevoli poteri per perseguire l’indirizzo politico: con la decretazione d’urgenza (di frequente uso: sono stati presentati dal Governo al Parlamento per la conversione 118 decreti-legge e sono stati approvati 114 disegni di legge di conversione), con la facoltà di porre la questione di fiducia per l’approvazione di disegni di legge o di singoli articoli di questi (altra facoltà di frequente uso: la questione di fiducia è stata posta alla Camera 60 volte, al Senato 36 volte) e con la legislazione delegata (spesso caratterizzata da genericità dei principi e criteri direttivi contenuti nelle leggi-delega, lasciando ampio spazio al potere normativo dell’esecutivo).
In realtà, il problema potrebbe essere rovesciato, poiché la legislazione di iniziativa governativa prevale nettamente su quella di iniziativa parlamentare, il che non è molto in linea con la classica divisione dei poteri presente anche nella Costituzione italiana. Nella scorsa legislatura il Parlamento ha approvato oltre 300 normative di iniziativa governativa, a fronte dell’approvazione di 85 proposte di legge di iniziativa parlamentare, corrispondenti al 22% della legislazione. È evidente che il vero problema è lo scarso peso del Parlamento nell’elaborazione delle leggi, materia di evidente competenza prioritaria del potere legislativo (e non di quello esecutivo, cioè del Governo). Quando una riforma legislativa non trova sbocco, di solito l’impedimento non va ricercato nella “burocrazia” parlamentare, ma nella conflittualità interna alla maggioranza tra le diverse forze o correnti che compongono la coalizione che sostiene il Governo. In altre parole si tratta di una questione politica di merito dei provvedimenti e non dell’architettura istituzionale e costituzionale.
Un’ultima nota marginale, che però dà il segno di come la revisione costituzionale, che sarà oggetto del referendum autunnale, sia stata pensata in modo incoerente. In quasi tutti i paesi dell’Unione Europea per essere eletti nei due rami dei Parlamenti occorre un’età anagrafica diversa, ovviamente maggiore per diventare senatori. Attualmente in Italia per essere eletti alla Camera bisogna avere almeno 25 anni e al Senato almeno 40 anni. Se verrà approvata la riforma, abrogando l’art. 58 della Costituzione, per accedere al Senato basteranno 18 anni, mentre per diventare deputati continueranno ad essere necessari almeno 25 anni d’età. Diventeremmo l’unico Paese al mondo in cui i senatori potrebbero essere più giovani degli altri parlamentari. Dato che il termine senatore deriva da “senex” (vecchio), per coerenza non dovremmo più chiamarlo Senato, anche soltanto per rispetto all’istituzione millenaria dell’Impero Romano, assemblea riservata esclusivamente agli anziani.