Il centro per lo scambio culturale Vik sito sulla Striscia di Gaza, avvalendosi dell’aiuto di professionisti provenienti dall’Italia si occupa, come già accennato nei precedenti articoli, d’intrecciare culture differenti come forma di crescita professionale per i giovani del territorio. Valerio Nicolosi, classe 1984, filmaker e fotoreporter impegnato quotidianamente nella collaborazione con le maggiori testate giornalistiche internazionali e con le televisioni nazionali, ha realizzato svariati documentari a sfondo sociale e sportivo, ha diretto videoclip musicali ed è stato finalista al Lampedusa in Festival 2014 con “Cañeros”. Presidente dell’associazione filmaker & videomaker italiani, da anni dedica gran parte del suo tempo alla causa palestinese, nella speranza di donare un contributo per la crescita di futuri professionisti nella Striscia di Gaza; lavora per far comprendere l’importanza di creare dei fotogiornalisti locali professionisti, troppo spesso prevaricati da quelli occidentali strapagati e senza una reale etica nei confronti della notizia stessa.
Il progetto dal nome Befilmaker ha preso vita qualche anno fa grazie alla vendita del libro scritto dallo stesso Valerio, in cui racconta se stesso e ciò che ha vissuto ogni qual volta il suo cuore si è trovato a accarezzare il suolo palestinese.
Quali sono state la motivazioni che hanno portato la tua professionalità e la tua vita privata a lasciare l’Italia per trasferirti a Bruxelles?
Sono romano. Roma è una città difficile da vivere ed è complesso anche a livello economico permettersi una semplice quotidianità. Se hai possibilità economiche è una straordinaria città, se non puoi concederti nulla si trasforma in una quotidiana sopravvivenza. Ho iniziato la mia carriera come come freelance, con salari molto bassi e pagamenti spesso protratti per tempi inverosimilmente lunghi.
In Italia le figure del fotoreporter e del videomaker sono tutt’oggi sottovalutate da chi ne gestisce il mercato?
Senza ombra di dubbio ti rispondo di sì. Questo lavoro è sottovalutato, sotto pagato, anche a livello di immagine dei fotografi stessi e dei professionisti. Nel nostro paese manca la cultura dell’immagine, a differenza di Francia, Germania o Stati Uniti. Spesso i giornali usano le fotografie scattate dagli stessi lettori, pur di non pagare la professionalità e un’immagine di alto livello, gettando così al vento anche una garanzia e dimenticando che un professionista difficilmente si trova a mentire attraverso questo lavoro fatto di passione, conosce l’importanza di un’immagine. Soprattutto nelle situazioni delicate non bisogna mai tralasciare l’etica.
Cosa pensi delle agenzie di stampa italiane, che non sembrano quasi preoccupate d’investire nella professionalità dell’immagine?
Vero, con l’avvento della tecnonologia è iniziato un gioco al ribasso: sembra quasi che basti avere una buona macchina fotografica per improvvisarsi fotogiornalista. Nell’informazione spesso preferiscono appoggiarsi al giornalista sul posto che si impegna a pubblicare qualche mediocre scatto con il suo telefono cellulare.
Una fotografia può denunciare un fatto più di quanto possa fare un articolo?
A prescindere dalla denuncia, se eseguita in modo professionale l’immagine nasconde una propria grammatica, proprio come un qualsiasi testo scritto. Senza il rispetto delle basi tecniche è impossibile riuscire a donare un senso ai contenuti. La vita descritta all’interno di un’immagine si cela tra le mani dei professionisti.
Sei molto vicino alla causa palestinese; hai mai pensato che una tua fotografia possa un giorno essere definita prova storica o magari dare il via a un cambiamento?
Una mia fotografia può essere usata come prova e dare inizio a un cambiamento. In generale le immagini non creano opinioni, ma possono confutarle o rafforzarle. Se si arriverà a un cambiamento per la liberazione della Palestina non potrà essere a parer mio grazie a delle fotografie, ma con l’aiuto anche dei video potrebbe sicuramente creare una spinta per un eventuale processo di cambiamento.
Una fotografia può trasformarsi in un capo di accusa?
Assolutamente sì, le fotografie dimostrano, ma possono anche essere menzognere, non tanto grazie all’utilizzo di computer o post produzione, ma cambiando il punto di vista del fotoreporter.
Due fotoreporter nello stesso luogo, nello stesso istante possono dare due visioni differenti di una notizia?
Possono dare anche 10 o 15 visioni differenti della stessa notizia e di ciò che sta accadendo in quel preciso momento, dando così la possibilità di manipolare una situazione. Ogni singolo professionista racconta un accadimento attraverso il proprio sguardo, avendo quindi la possibilità di modificare la versione dei fatti.
In zone sotto assedio, con due fotoreporter disposti su angolazioni differenti, potrebbe esserci il rischio che un’aggressione da parte di un militare nei confronti di un civile diventi manipolabile?
Un esempio importante che si può citare è la critica che è stata sollevata al recente vincitore del premio Pulitzer, con militare che sembra abbia spinto sui binari una famiglia di rifugiati siriani. Un video ha dimostrato poco tempo dopo il contrario, mettendo in discussione il senso di quell’immagine ormai famosa. Sembra che in realtà il militare abbia cercato di aiutarli; nel disperato tentativo di salvarsi l’uomo ha scelto di gettarsi con l’ intera famiglia al centro dei binari. Questo lascia comprendere come le fotografie per loro natura raccontino una piccola parte di verità; quale sia la verità in realtà sarà il fotografo a deciderlo. La prospettiva del racconto verrà modificata da vari fattori, dall’angolazione, dal tipo di obiettivo più o meno potente. Per questo motivo le fotografie potranno supportare un’idea, una battaglia, ma non saranno mai in grado di creare opinioni nuove.
Perché hai scelto la Striscia di Gaza per istruire nuovi fotoreporter?
Gaza è un luogo unico al mondo, perché rammenta non solo al primo impatto un carcere a cielo aperto ed è sovraesposta mediaticamente di continuo. Con una semplice ricerca internet inserendo la parola chiave ti troverai sommerso in pochi secondi da milioni e milioni di immagini, percependo solo guerra e morte. Questo accade perché Gaza viene raccontata attraverso le agenzie internazionali che si recano là solo in periodi particolarmente complessi o pericolosi politicamente. In realtà ciò che mi ha interessato dal primo istante è stata la formazione di persone all’interno della Striscia, dando loro la possibilità di raccontarla senza essere obbligati alla mediazione delle agenzie internazionali. Nessun fotoreporter, anche il migliore del mondo, potrà mai raccontare la vita come chi la vive giorno per giorno. Durante il primo corso ho avuto uno scambio di opinione e crescita mia individuale: ho fotografato due donne con il velo che contemplavano il mare dal porto. Le ragazze non hanno compreso questo mio gesto e la mia fotografia è stata considerata troppo semplice, scontata. Mi sono reso conto di come in Occidente la donna col velo rappresenti l’oppressione della figura femminile, mentre per loro è semplicemente un simbolo differente. Il progetto serve a questo, a dare i punti di vista di chi vive all’interno dell’ enclave, a mostrare le usanze, le abitudini e i colori.