Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo scritto di Antonella Freggiaro, presidente dell’associazione Abarekà Nandree onlus, che dal 1999 realizza progetti in Mali finalizzati al miglioramento dell’educazione, della salute e della qualità della vita.
La sera del l’11 gennaio 2013 il presidente ad interim del Mali, Diocouda Traorè, ha proclamato lo stato di emergenza, dando inizio alle ostilità contro i gruppi islamici “salafiti” (una tra le più dure e violente correnti dell’Islam) che dal marzo 2012 praticano sulla popolazione maliana del nord le forme integraliste della sharia – con lapidazioni e amputazioni come pena – e che recentemente hanno attaccato l’esercito per avanzare verso il sud del paese.
La Francia è entrata subito in azione con raid aerei e le truppe governative hanno rioccupato Konnà, caduta giovedì in mano ai ribelli. Il presidente del Mali ha promesso che i ribelli riceveranno una risposta militare “sferzante e massiccia” e che il conflitto durerà tutto il tempo necessario a riconquistare l’integrità del paese. Ormai la guerra è iniziata e non si sa quanto durerà.
Ma come è cominciato tutto questo?
Abitato in prevalenza da islamici sufi (una tra le più moderate e mistiche correnti dell’Islam), il Mali è diventato indipendente nel 1960. All’inizio ha avuto un governo laico, con un solo partito, socialista e nazionalista, sconfitto da un golpe militare nel 1968. Un successivo colpo di stato, avvenuto nel 1991, ha portato all’adozione di una Costituzione che permetteva l’esistenza di vari partiti. Ciononostante un solo partito ha dominato la scena politica, l’ADEMA; data la teorica situazione elettorale multipartitica, il regime del Mali è stato incoronato dall’Occidente fino agli inizi del 2012 come “democratico” ed esemplare.
Durante tutto questo periodo, i politici e gli amministratori pubblici provenivano dai gruppi etnici installati nel sud del paese (che rappresenta il 40% del territorio ed è il più densamente abitato); il restante 60% (in gran parte desertico), è abitato in prevalenza da gruppi tuareg, spesso marginalizzati dal governo centrale, che periodicamente si sono ribellati, decisi a formare uno stato indipendente. Molti tuareg sono fuggiti in Libia, entrando nell’esercito. La confusione seguita alla morte di Gheddafi ha permesso che soldati tuareg con armi e soldi facessero ritorno in Mali per iniziare la lotta per l’Azawad (il nome del loro futuro stato indipendente), organizzandosi come MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad)
Lo scorso 22 marzo a Bamako, la capitale del Mali, un gruppo di ufficiali capeggiati da Amadou Haya Sanogo ha annunciato un terzo colpo di stato post-indipendentista. La Francia, gli Stati Uniti ed altri stati dell’Africa occidentale hanno dichiarato la loro forte opposizione al golpe e chiesto il ritorno del precedente governo. A fatica è stato raggiunto un accordo tra le forze di Sanogo e il vecchio regime, con l’installazione di un nuovo presidente “ad interim”, mentre a nord i tuareg dell’ MNLA hanno cercato alleanze con gruppi più fondamentalisti. Questi ultimi hanno messo da parte quasi subito l’MNLA e assunto il controllo di tutte le città più importanti del nord del Mali.
Gli elementi più fondamentalisti appartengono a tre gruppi differenti: Ansar Eddine, (tuareg locali), Al Qaeda nel Maghreb (AQIM), composto quasi tutto da stranieri e il Movimento per il Tawhid e della Jihad in Africa dell’Ovest (MUJAO). Questi gruppi controllano aree differenti del paese ed è poco chiaro che cosa li unisca, sia da un punto di vista tattico che da quello degli obiettivi. Ciò che è certo è che mirano ad instaurare una repubblica islamica fondamentalista in Mali.
Prima dell´offensiva jihadista su Konna, gli Stati Uniti, la Francia e altri paesi occidentali speravano di riuscire a radunare entro l´estate una parte consistente dei tremila effettivi dell´esercito maliano e di affiancarvi qualche migliaio di soldati dell´Ecowas (l’organizzazione regionale dell´Africa occidentale). Anche i carabinieri italiani avrebbero contribuito all´addestramento dei maliani. Con la copertura aerea, logistica e di intelligence occidentale, tale variegata coalizione avrebbe dovuto lanciare in autunno un´offensiva destinata a riconquistare le tre città del Nord in mano ai ribelli: la mitica Timbuctù, al confine meridionale del deserto, Gao e Kidal.
Il tutto sotto l´ombrello della risoluzione 2071, approvata all´unanimità il 12 ottobre scorso dal Consiglio di Sicurezza dell´Onu, che legittima l´intervento militare in Mali. Romano Prodi ha assunto il ruolo di inviato speciale delle Nazioni Unite e si è impegnato per mesi a tessere relazioni tra le diplomazie africane e quelle occidentali, nel tentativo di sedare la crisi, dividere il fronte jihadista e impedire il collasso di ciò che resta del Mali, già “democrazia modello” regionale.
Ma ogni tentativo di mediazione è fallito e l’emergenza ha spinto Parigi a intervenire subito da sola (o quasi). C’è in gioco il suo rango storico di “gendarme”, tra Maghreb, Sahara e Sahel e l’accesso a risorse energetiche di cui l´ex impero africano è ben fornito (uranio, gas, petrolio) e nel cui sfruttamento sono impegnati i colossi dell’´industria francese, Areva in testa.
Questa la situazione ad oggi: si è reso necessario un intervento militare per fermare l’avanzata dei gruppi jihadisti ed evitare che l’intero paese diventasse una repubblica islamica integralista.
Oltre alla preoccupazione per le sorti della popolazione e del paese resta un interrogativo di fondo: questa guerra era proprio inevitabile? Ancora una volta contro le usurpazioni ed i soprusi l’unica risposta è la violenza?
La risposta è difficile in questo momento, visto che tutti i tentativi di mediazione con i gruppi integralisti sono miseramente falliti e il popolo del Mali è contrario alla Sharia. Non resta che sperare che questa guerra non sia troppo lunga e dolorosa….
Antonella Freggiaro