La popolazione di Gaza sotto assedio da decenni vive l’impotenza di non potersi muovere liberamente nel mondo. Poche sono le possibilità concesse per poter usufruire di diritti spesso negati.
Una di queste possibilità prende il nome di Valico di Rafah, una sorta di corridoio che congiunge Egitto e Striscia di Gaza, dando la possibilità con i documenti appositi, di usufruire di visite mediche, incontrare la persona amata, parenti ed altro. Raramente il governo egiziano anticipa pubblicamente la data di apertura, cosa che è invece accaduta in questi giorni, in cui a sorpresa la direzione del presidente Al Sisi ha dichiarato che avrebbe aperto il passaggio del valico per 48 ore, dall’11 maggio mattina all’intera giornata del 12 maggio. Nel frattempo il governo israeliano tiene illegalmente chiuso il valico di Erez, impedendo così alla popolazione il raggiungimento delle zone confinanti.
La rabbia si è diffusa quando, dopo 85 giorni in cui l’accesso era bloccato e l’apertura era stata annunciata per 48 ore, senza il minimo scrupolo dopo solo 24 ore migliaia di persone si sono viste chiudere i cancelli. Hanno potuto accedere solo in 443, di cui quasi tutti provvisti di passaporto egiziano. I militari non hanno tenuto minimamente in considerazione i documenti a loro mostrati: cartelle cliniche di malati di cancro che cercavano invano di raggiungere l’ospedale di Gerusalemme, attestati universitari che permettevano l’accesso non sono stati tenuti in considerazione di fronte alla disperazione e allo stupore di tutti i presenti.
Sorpresa mondiale quando nella mattina di ieri, giovedì 12 maggio, gli ufficiali hanno chiuso l’accesso un giorno prima, lasciando donne, anziani e bambini, stremati dopo ore di attesa, nuovamente senza la libertà promessa. Vi proponiamo una breve intervista e un fotoreportage del nostro fotografo Shadi Al-Qarra che, assistendo alla negazione dei diritti umanitari per l’ennesima volta, ha scelto di illustrarci da uomo palestinese cosa si prova di fronte a situazioni come queste, vissute sulla propria pelle.
Che sensazioni hai avuto mentre scattavi le fotografie che testimoniavano ancora una volta la prigionia del tuo popolo ?
Mentre scatto una qualsiasi fotografia cerco di rappresentare i sentimenti e le emozioni del mio popolo, si tratti di una manifestazione o qualsiasi altro evento. La Palestina e il popolo palestinese hanno una storia profonda dentro di loro e la leggi negli occhi dei bambini, autentici e duri. Oggi è stato difficile per me scattare queste fotografie, perché ho visto la stanchezza, la desolazione, la speranza negata ancora una volta dalle forze che assediano questa terra oramai da troppo tempo.
Cosa si prova ad essere in prigione nella propria casa?
Cerco di non pensarci per sopravvivere. Uso la mia macchina fotografica per dare speranza. Queste sono le medicine del popolo palestinese: la speranza e la tenacia.
Sono solo un essere umano, triste e arrabbiato, cerco i sogni negli occhi delle persone, ma ormai è da troppo tempo che si va avanti così, ascolto la mia terra mentre il mondo osserva in silenzio.
La macchina fotografica per un fotogiornalista potrebbe essere considerata un muro che ripara dalle emozioni?
No, senza ombra di dubbio: oggi ero commosso, ma cercavo di concentrarmi nell’osservare persone anziane sfinite e umiliate dinnanzi alle guardie che impedivano loro l’accesso, decenni sulle proprie spalle senza vedere una via d’ uscita. È stato sfiancante per me. La macchina fotografica amplifica le mie emozioni perché devo raccontare e portare nel cuore della gente ciò che viene vissuto, in maniera chiara e semplice.
Quale scena ti ha colpito maggiormente oggi?
I bambini; amo fotografare i bambini e i volti delle persone, loro sono la storia e la vita. Vedere i bambini stremati dormire sul pavimento, per poi essere mandati indietro senza il minimo rispetto mi ha ferito, mi ha ferito profondamente.