Intevento al workshop: “Dalla Vendetta alla riconciliazione: Verso una umanità possibile” – Aula Volpi – Università di Roma Tre – 29 aprile 2016
Abstract
Lo scopo di questo contributo è quello di definire le costanti che sovrintendono alla vendetta al fine di ottenere una conoscenza più approfondita delle sue manifestazioni sul piano sociale e dall’altro creare un terreno fertile per un suo superamento sul piano personale.
L’esposizione cercherà di far emergere gli elementi che fungono da trasfondo per ogni azione vendicativa. A tal proposito prenderemo in considerazione i concetti di danno e offesa, i concetti di causa dell’offesa e colpa e i concetti di pena e sanzione, quest’ultimi intesi come continuità della vendetta mascherata da giustizia.
Si cercherà inoltre di esporre brevemente un’ipotesi che spieghi il funzionamento della vendetta intesa come “la credenza per la quale far soffrire l’altro compensa quello squilibrio cosmico che si è prodotto per l’ingiustizia che l’altro ha commesso”.
Non si pretenderà di offrire certezze perché questo è un lusso concesso a chi non è implicato nel fenomeno.
Intervento
Confesso che quando mi sono cimentato a preparare questo intervento ho incontrato diverse difficoltà. La prima tra queste era quella di comprendere, vista l’enormità di implicazioni che esistono attorno l’argomento della vendetta, quali fossero i temi prioritari da esporre. Un’altra difficoltà, di non poco conto, era quello di sciogliere l’intricato groviglio, che presenta la vendetta, sul piano morale, culturale, religioso, sociale, antropologico e filosofico.
Vorrei quindi scusarmi in anticipo se in alcuni tratti, alcuni temi, saranno descritti sinteticamente o semplicemente abbozzati.
Quando si affronta il tema della vendetta risulta chiaro e palese che questa, prima come desiderio e poi come atto, si manifesta sempre dopo il sorgere di un evento che viene interpretato come il danno. Ma non basta, per la vendetta occorre che quel danno abbia le connotazioni dell’offesa.
A tal proposito vorrei raccontare un episodio che mi occorse qualche tempo fa in una via adiacente Campo de’ Fiori. Ero intento a passeggiare guardando le vetrine dei negozi quando alcune voci si alzarono sopra l’ordinario brusio dei passanti e della vita quotidiana. Mi accorsi che le voci provenivano da due soggetti che avvicinandosi tra loro si scambiavano ad alta voce giudizi sulle rispettive madri, i rispettivi orientamenti sessuali e in ultimo maledicevano le anime dei loro morti. La cosa mi preoccupò un po’ perché pensai che di lì a poco i due si sarebbero scontrati fisicamente con conseguenze in quel momento imprevedibili. Ma proprio in quegli istanti in cui ero intento a pensare sul da farsi successe qualcosa di strano. I due arrivarono a stretto contatto e invece di prendersi a calci e cazzotti come avevo previsto, si abbracciarono affettuosamente. La visione surreale di entusiastiche pacche sulle spalle e alcuni baci fraterni fece tirare un sospiro di sollievo a tutti gli astanti mentre in me sorgeva l’idea di fare altrettanto con un mio carissimo amico. Come si può facilmente immaginare, con il mio amico, le cose non andarono esattamente come avrei voluto. Diciamo che prese le mie parole, per così dire, alla lettera.
L’episodio però mi fece comprendere quanto fossero importanti le circostanze e mi fece pensare che l’offesa era sempre inserita all’interno di un dato contesto.
Nell’esperienza, sappiamo bene, che ci può essere un danno senza offesa. Non mi riferisco in questo caso alla presenza o meno dell’intenzione a offendere. Mi riferisco, per esempio, a quei danni che siamo disponibili a sostenere perché spinti dalla solidarietà nei confronti di qualcuno. Oppure mi riferisco a quei danni che in relazione a uno sperato bene futuro, ci sentiamo preparati a far fronte, cioè quelli che prima del danno avevamo definito come “componente di rischio”. Infine, parlo di quei danni non preventivati, che nell’immediato o dopo poco tempo si rivelano essere il preludio a un evento felice, oppure la scongiura di un evento funesto. Questi ultimi sono i danni che si possono riassumere nel proverbio “Non tutti i mali vengono per nuocere”. Insomma quei danni che non compromettono il futuro lasciandolo ancora colorato di speranza. In quei particolari casi si può arrivare addirittura a benedire chi ci ha procurato quel danno. A titolo di esempio immaginiamo un tipo che sta andando in auto all’aeroporto per prendere un aereo. Immaginiamo ora che un incidente automobilistico gli impedisca di arrivare in tempo all’aeroporto facendogli perdere l’areo. Se finisse qui la storia diremmo che il tipo in questione ha subito un danno. Ora immaginiamo però che il tipo arrivando all’aeroporto venga a sapere, che proprio l’areo che avrebbe dovuto prendere, poco dopo il decollo è precipitato. Come giudicheremmo ora quell’incidente automobilistico? come un danno o come una fortuna?
In effetti, malgrado nei casi descritti subiamo un detrimento delle nostre possibilità o una perdita di beni, con difficoltà li chiameremmo danni e magari useremmo il termine più neutro di incidente.
Ma se il danno non si trasforma sempre in offesa cos’è quindi l’offesa?
Quando mi osservo nel mio sentirmi offeso mi rendo conto che è sempre in gioco un’immagine che ho del futuro. In altre parole mi sento offeso perché c’è stato qualcosa, l’evento dannoso, che si è frapposto tra me e il raggiungimento di uno scopo, di un progetto. Il danno è divenuta la pietra d’inciampo nel fluire del tempo.
Questo mi fa pensare che l’offesa è qualcosa di soggettivo e che non c’è evento che uno psichismo particolarmente suscettibile e superstizioso non possa tradurre prima in danno e poi in offesa. Ma anche il danno è soggettivo?
A tal proposito si potrebbe dire per esempio che per la giurisprudenza, l’antigiuridicità di un evento si definisce all’interno di un ordinamento giuridico, il quale è giustificato dal costume, la morale, la religione o il consenso sociale e infine questi, dipendono dal potere che le ha imposte. Con il cambiare dell’opinione o con il cambiare del potere, cambia la legge, cambia perciò anche il concetto di danno. Quando poi si parlasse di “morale naturale”, “diritto naturale” o “istituzioni naturali”, preferiamo affermare che in questi contesti è tutto storico-sociale e che nulla esiste, per così dire “naturalmente”. Tutto è intenzionale. Così l’affermarsi di un evento in guisa di danno, di offesa o reato è sempre il risultato di una lotta tra intenzioni umane.
Ritornando quindi al concetto di offesa potremmo aggiungere che l’offesa è quel supposto danno che s’interpreta come lesivo all’interno di una certa concezione del tempo, del mondo e di se stessi. Se diversa fosse la rappresentazione mentale, diversa sarebbe l’offesa.
In sostanza quando mi sento offeso è perché una certa opinione che ho di me stesso non soltanto come individuo ma anche come parte di un insieme è stata in qualche modo messa in discussione. Per esempio, se mi rappresentassi come un uomo le cui origini si ritrovano in certi popoli cosiddetti eroici, con un passato glorioso e bellicoso, e che in virtù di questo credessi che il successo e la felicità si ottenga con il coraggio, la forza e la devozione, allora crederò di avere certe prerogative, certi diritti, certe aspettative e valori, cioè un modello di come dovrebbero essere e andare le cose. L’offesa così apparirebbe quando, più o meno improvvisamente, intervenisse qualcosa che smentisca questa credenza, qualcosa che volesse affermare che ciò che credo di essere, ciò a cui credo di appartenere, non sia vero.
Queste rappresentazioni del mondo e di se stessi, inserite e condivise in un contesto sociale dato, costituiscono l’identità di riferimento di un insieme umano, fino a declinarsi in un ordinamento giuridico non necessariamente scritto. In altre parole, un insieme di leggi e regole che, da un lato, avrebbe lo scopo di sancire un patto sociale tra individui con lo stesso bagaglio identitario, e dall’altro permetterebbe di raggiungere e mantenere una convivenza sociale all’interno di un gruppo umano.
L’offesa è sempre all’interno di quest’inquadramento maggiore. Non c’è offesa quindi, senza un ordinamento giuridico e non c’è ordinamento giuridico senza un’identità.
Ma questa identità non è ciò che chiamiamo dignità o meglio onore?
Sembra proprio che le cose stiano in questo modo. L’onore è un patrimonio sociale, questo si tramanda, si acquisisce, diminuisce o si perde in virtù del particolare percorso che l’individuo o il gruppo umano compiono nella storia sociale.
Mutuando un concetto dal mondo economico l’onore è una sorta di “carta di credito”. Fintantoché avrò onore avrò “credito” e posso dare “credito”. Sono credibile. Fintantoché avrò onore, avrò la possibilità di stabilire relazioni umane e restare inserito nel “mondo” a cui tengo. Fintantoché avrò onore sarò considerato un membro effettivo di quell’insieme. Nel momento in cui perdo l’onore, la funzione sociale della mia esistenza all’interno di quel “mondo”, viene meno. In sostanza, e dal punto di vista esistenziale, potrebbe risultare equivalente a una morte sociale.
A questo punto ogni offesa nei confronti dell’onore dell’individuo o per estensione di questo, del gruppo sociale, comporta una reazione che punta a ristabilire l’ordine sociale perduto. Il concetto di famiglia in questo contesto, concepito come primo nucleo sociale in cui si manifesta la struttura identitaria, gioca un ruolo determinante.
Se oggi, quando ci presentiamo a un estraneo, mettiamo accanto al nostro nome anche quello della nostra famiglia è perché c’è stato un tempo in cui il definire la famiglia di appartenenza raccontava una storia, un vissuto, forniva un insieme di informazioni che erano utili all’altro per sapere come doveva comportarsi nei nostri confronti. Il solo nome di famiglia predisponeva all’offesa o apriva le porte dell’ospitalità e degli onori. La memoria, la memoria storica, acquistava così un valore spropositato. Era la memoria che finiva per dire, nel bene e nel male chi si era, che definiva quindi l’identità di tutto.
Ma ora che comprendo come si origina il mio sentirmi offeso mi rendo conto che non reagisco all’offesa tutte le volte che ne sono vittima. Mi rendo conto che reagisco in maniera diversa in relazione a una rappresentazione gerarchica dell’organizzazione sociale. Sembra che non sia la stessa cosa se l’offesa mi arriva da chi ritengo un superiore, per esempio il mio capoufficio, oppure un collega mio pari o da chi ritengo un mio sottoposto. La reazione all’offesa così stabilisce o rinforza il rango e la gerarchia all’interno della struttura identitaria. Da questo punto di vista l’offesa che si tollera meno è quella che si suppone provenga da chi si ritiene un pari, perché è tra pari che si sviluppa la maggiore competizione. Nei confronti del subalterno invece opera a volte quello che spesso viene chiamato perdono, cioè l’altro è perdonato quando si umilia di fronte al superiore. Pur comprendendo che tutto ciò opera in me riconosco quanto sia drammatico e ridicolo al tempo stesso.
Cercando di riassumere brevemente quanto esposto, possiamo affermare che l’offesa si manifesta in presenza di una struttura identitaria, intendendo questa come un agglomerato di valori, credenze e aspirazioni, conformatosi all’interno di un contesto sociale determinato. Abbiamo detto che questa struttura identitaria s’inserisce nel sistema di relazioni sociali e assume i concetti di danno e di offesa condividendoli in un ordinamento giuridico che non necessariamente arriva alla forma scritta. Quindi, possiamo affermare che i concetti di danno e offesa discendendo da una rappresentazione mentale, perdono ogni pretesa di oggettività e naturalità.
Sperando di aver sufficientemente spiegato il contesto dell’offesa cerchiamo ora di vedere quali altri elementi fanno da trasfondo all’azione vendicativa.
Certamente un elemento che contraddistingue la vendetta è il suo aspetto emozionale. L’offesa ricevuta colora la coscienza di una serie di emozioni negative che forniranno l’energia psichica necessaria al conseguimento della vendetta, arrivando persino a determinare il significato stesso del concetto di giustizia. Il desiderio di giustizia sarà così nient’altro che il desiderio di vendetta e il risentimento, come suo correlato emozionale, la lente attraverso la quale si interpreterà il mondo e se stessi. Un processo nel quale tutto finisce nel più oscuro nichilismo.
A questo punto quasi tutti gli elementi necessari alla vendetta sono riuniti ma resta forse il più importante, quello della credenza per la quale si otterrà soddisfazione dall’offesa subita solo quando il colpevole patirà almeno la stessa sofferenza che ci ha procurato.
La credenza sostiene che il procurare sofferenza al colpevole dell’offesa restaura la dignità, l’onore perduto. Sostiene inoltre che non c’è riabilitazione della dignità fintantoché la sofferenza patita per l’offesa è parte della propria esistenza. L’imperativo è quindi quello di espellere questa sofferenza, scaricare il peso della vergogna, del disonore, dell’onta e infine ripristinare il progetto che si era arrestato. Devo vendicarmi e per questo uso violenza. La violenza della vendetta in questo senso svolge un ruolo determinante in quanto si associa ad un registro di liberazione, di potenza, secondo noi vicinissimo a quello che si potrebbe vivere in certe esperienze religiose.
Ma la vendetta può ricondursi al fenomeno religioso?
Ci sarebbero molti elementi per supporlo. Un primo elemento potrebbe essere il suo manifestarsi con una certa ritualità esorcizzante, un altro, il suo riferirsi all’elemento trascendente, e un terzo elemento potrebbe essere il suo trasformarsi in un dovere morale che si tramanda di generazione in generazione coinvolgendo la dimensione esistenziale.
A tutto ciò potremmo poi aggiungere che se la manifestazione del sacro nell’essere umano si diede, agli inizi, come un “misterium tremendum”, come qualcosa di terribile e mostruoso che pose l’essere umano di fronte alla finitezza della vita, allora la violenza della vendetta, per un errore di comprensione di quel segnale che proveniva dal Profondo, diventò un modo per continuare a restare vicino alla potenza del Sacro.
E’ proprio per restare vicino alla potenza del Sacro che anche l’organizzazione sociale, arrivò a esser vissuta come speculare all’ordine divino. Una sorta di imitatio dei in cui, per uno strano gioco di specchi, il divino e il sociale si corrispondevano, conformando l’idea “così in alto, così in basso” che al disordine sociale corrispondesse un caos cosmico. Così ogni crepa, ogni rottura dell’ordine sulla Terra deve essere riparata, pena una catastrofe di dimensione cosmica. Da qui deriva l’idea della compensazione speculare nella vendetta che viene raggiunta attraverso la sofferenza dell’altro.
Continuando quindi a comprendere questa strana credenza “per la quale far soffrire l’altro compensa quello squilibrio cosmico che si è prodotto per l’ingiustizia che l’altro ha commesso” potremmo dire che la sensazione che si prova subito dopo aver compiuto un’azione vendicativa è caratterizzata dal rilascio di tensioni. Che questo poi si possa spiegare in termini fisiologici, cioè attraverso la comparsa di particolari neurotrasmettitori nella chimica del sistema nervoso centrale, non aggiunge molto al tema. Resta il fatto che una tensione si rilassa e il soggetto comincia, anche solo per un momento a percepirsi in maniera diversa, arrivando persino, in alcuni casi, all’euforia o al delirio. Pur trattandosi di una catarsi, l’esperienza ottiene una certa presa sullo psichismo. A quel punto solo la diversa qualità delle circostanze ambientali e dell’esperienza interna del soggetto potranno evitare che non ne rimanga fortemente dipendente.
Questo tipo di esperienze che danno un apparente e illusorio registro di liberazione arrivarono però a sviluppare una concezione di libertà intesa come possibilità di usare violenza. Per quella concezione, la libertà di usare violenza di fronte all’offesa diventa un diritto inalienabile arrivando a considerare la vendetta una forma di deterrente nei confronti di nuove minacce. A tal proposito, senza addentrarci nell’attualissima discussione che sta facendo il Parlamento italiano sulla legittima difesa, possiamo dire che il diritto al possesso di armi sancito dal secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America è da concepire proprio come una regolamentazione del diritto a vendicarsi, cioè la vendetta come deterrente. Il secondo emendamento è solo un esempio ma potremmo osservare lo stesso fenomeno sul piano internazionale ricordando l’assurda corsa agli armamenti nucleari che ha segnato tutto il ventesimo secolo e lasciandoci con un’eredità dalle molte incertezze.
Qui potrebbe terminare questa analisi sul fenomeno della vendetta in generale ma sarebbe opportuno a questo punto prendere in esame come questo fenomeno si sia sviluppato nella cultura occidentale, assumendo delle caratteristiche peculiari. Vogliamo intendere la cultura occidentale come quella cultura che eredita il trasfondo psicosociale che portò alla nascita del Codice di Hammurabi.
Alle origini, nella vendetta, la ricerca del colpevole su cui scaricare la punizione non è mai stato molto importante. C’è stato un momento in cui la vendetta si manifestava in maniera indeterminata. Bastava ottenere quel registro di forza liberatoria, rispettare la potenza religiosa del culto familiare e quindi assicurarsi che l’integrità identitaria fosse salva. Per questa ragione, per esempio, alla morte di qualcuno della famiglia bastava uccidere il primo che passava.
L’indeterminatezza in cui si manifestava la vendetta, in quelle società via via sempre più interconnesse e strutturate pose non pochi pochi problemi relazionali al punto che fu necessario regolamentarla. Il primo problema da affrontare fu appunto quello della definizione del colpevole, cioè del soggetto contro cui si doveva scatenare la vendetta.
In Occidente questa parte della definizione della responsabilità, la causa dell’offesa, assunse un’importanza estremamente rilevante.
Diciamo che nella vendetta così come la conosciamo oggi, e non fa difetto in questo ormai nessun ordinamento giuridico, per attuarsi ha bisogno di definire un nesso di causalità tra il danno e il responsabile del danno. Se c’è un effetto, ne consegue che ci sia una causa. Senza disturbare Aristotele, nella circostanza dell’offesa la ricerca della causa si conclude nel cercare d’isolare il fatto, individuando colui che ha lanciato l’intenzione a offendere, e eventualmente quando non coincidesse, anche colui che l’ha messo in essere.
S’intuisce che sempre in questa logica di causa-effetto, l’analisi delle azioni e reazioni, si limita a prendere in esame solo un preciso lasso di tempo. Quel lasso di tempo che inizia con il sorgere dell’intenzione a offendere. In questo contesto non importa se il danno sia la conseguenza o meno di un’azione volontaria. Se non ci si attiene a una legge, a una regola o a una prescrizione e involontariamente per questo si producesse un danno, si è comunque offesa la struttura identitaria che ha posto in essere la legge, la regola e la prescrizione.
Nella ricerca della causa è come se, in un dato momento, si bloccasse il fluire del tempo. Si congela un dato lasso di tempo, lo si estrae da ogni contesto e lo si analizza definendo in quel momento tutte le relazioni di causa-effetto. E’ sempre una ricerca a ritroso nel tempo. Ciò non toglie però, che l’investigazione escluda per questo, un lasso di tempo molto ampio. L’importante per questa logica è individuare l’originale intenzione a offendere. Molti miti cosmogonici recano i segni di questa tendenza. Solo a titolo di esempio possiamo ricordare il mito egizio di Horus. Horus figlio di Osiride reclama i domini sottratti, con l’inganno, da Seth al padre Osiride. Ne scaturisce un lotta senza tregua in cui tutto il pantheon è chiamato a schierarsi. Horus chiede vendetta! Più volte per mettere fine al conflitto si ricorre al tribunale degli dèi dove troveremo già la bilancia come simbolo di giustizia. La disputa termina con la vittoria di Horus che in virtù di questo, aiuterà Ra a sconfiggere Apophis, divinità delle tenebre e del caos. Il mito ci dice che la vittoria di Ra su Apophis, che rappresenta il caos quindi la causa originaria dell’offesa, avverrà solo dopo la vendetta di Horus su Seth.
In sostanza nella logica di causa-effetto si tratta di un’interpretazione soggettiva del fluire del tempo. Una volta trovata la causa efficiente si procede a conferire la colpa.
Nietzsche affermava che un tempo si infliggeva la punizione con lo scopo di far sorgere la colpa che avrebbe svolto il ruolo di deterrente ma con il passare del tempo sembra che la cosa si sia ribaltata al punto che dalla colpa ne segue la pena o peggio la vendetta. In effetti, secoli di punizioni hanno prodotto una colpa originaria, un peccato originale, tanto che la colpa acquisisce una dimensione atemporale e non funge più da deterrente ma diviene il vissuto fondamentale della coscienza occidentale.
Da questo punto di vista, che si stia parlando di vendetta o della raffinatezza della giustizia dell’ordinamento giuridico di uno Stato, non c’è molta differenza. Il nesso di causalità resta fondamentale per definire il responsabile dell’offesa.
Con il tempo e soprattutto con il sorgere di organizzazioni sociali sempre più strutturate, e convenzionalmente a partire da Hammurabi, l’ordinamento della vendetta si scontra con un altro ordinamento, quello dello Stato.
La formazione dello Stato produsse la necessità di sintetizzare le diversità di usi e costumi e dall’altro di controllare che la violenza, di cui doveva avere l’assoluto monopolio, non dilagasse nella società e mettesse a repentaglio il nuovo ordine costituitosi. In questo quadro l’organizzazione statale produsse un vero e proprio esproprio dei differenti ordinamenti giuridici originari trasferendoli dalla dimensione del sacro alla dimensione del profano.
Lo fece gradualmente perché la sfera religiosa gli fu ancora utile per legittimare la sua natura ma poi, costretto a sempre nuove sintesi che facilitassero l’affermazione del potere su popolazioni via via più diverse, finì per operare sempre nuove astrazioni che portò l’organizzazione statale a consolidarsi sempre più. La diversità e la multiformità furono le dimensioni da reprimere. Il processo terminò con un’idea di apparato giuridico-burocratico che si pose al di sopra dell’essere umano.
Quegli ordinamenti antichi, quella giustizia antica, verrà così marchiata come una giustizia privata o peggio come una giustizia primitiva o tribale.
Come si è già intuito la vendetta in realtà si trasferì nell’ordinamento giuridico statuale e si trasformò in quello che oggi chiamiamo pena e sanzione.
La sostanziale differenza tra i due ordinamenti sta nella supposta razionalità della cosiddetta giustizia. Nel processo di regolamentazione della vendetta, lo Stato nel tentativo di controllare le sproporzioni e gli eccessi che avrebbero compromesso l’ordine sociale, ha eliminato del tutto l’emozione nella fase giudicante, trattando il conflitto come se fosse una semplice questione di pesi sui piatti di una bilancia, il cui equilibrio sarebbe la verità stessa dei fatti.
A tal proposito, vorrei citare un dialogo tratto dal recente film di Tarantino “The hateful eight”. Nel dialogo i personaggi sono Mobray, un boia e Daisy, una ladra e assassina ormai prigioniera di un cacciatore di taglie.
«Sei accusata di omicidio», dice Mobray a Daisy. «Mettiamo che l’accusa sia fondata e che a Red Rock alla fine del processo ti dichiarino colpevole. Bene, a quel punto arrivo io e ti impicco. Se tutte queste cose accadono insieme, questa è quella che la società civilizzata chiama giustizia. Ora, se invece i parenti delle persone che ti hanno ucciso fossero fuori da questa porta e, dopo averla buttata giù, ti trascinassero fuori nella neve e ti tirassero il collo. Bene, quella sarebbe giustizia sommaria. La parte buona,” continua Mobray, “è che la giustizia sommaria placa la rabbia, la parte cattiva è che non c’entra nulla con il giusto o lo sbagliato.”
“Ma alla fine… qual è la vera differenza tra le due?”, è sempre Mobray che parla. “La vera differenza sono IO… Il boia. A me non importa cosa hai fatto. Quando ti impicco, non avrò nessuna soddisfazione dalla tua morte. È il mio lavoro. Ti impicco a Red Rock, poi vado nella prossima città e impicco qualcun altro. L’uomo che tira la leva, che ti spezzerà il collo sarà un uomo distaccato. Ed è quel distacco la vera essenza della giustizia. Perché la giustizia comminata senza distacco, corre sempre il rischio di non essere giustizia”.
Secondo Tarantino la giustizia quindi è qualcosa di freddo e distaccato, forse è un’analisi un po’ eccessiva ma non si distacca di molto da come la giustizia dello Stato rappresenta se stessa.
Cos’è la vendetta oggi?
In un società come quella attuale, sempre più destrutturata, in cui l’alto tasso di competitività si accompagna a un individualismo schizofrenico e a un certo isolamento, la struttura identitaria è sempre più frammentata al punto che il concetto di giustizia diventa qualcosa di sempre più soggettivo e relativo. Basta sentirsi escluso dal modello più alla moda per sentirsi vittima di un’ingiustizia, fino a pensare che è la vita stessa ad averci offeso. Il risentimento e il desiderio di vendetta, diventa il trasfondo emozionale di una società tutta.
Fin dall’antichità la vendetta è sempre stato un soggetto principe della narrativa mondiale. Le più grandi opere letterarie, teatrali e cinematografiche che la storia ricordi hanno come trasfondo la vendetta. Ha una tale capacità di pervadere il vissuto dell’essere umano al punto che a volte ci rimane difficile immaginarci senza. Immaginare un mondo senza questa modalità ci lascia ancora totalmente spaesati, in preda a contorcimenti di budella e riflussi gastrici.
Ancora molto abbiamo da lavorare per superare la vendetta. Riuscirci sarebbe una vera rivoluzione, ciononostante resta la vera urgenza per l’umanità tutta.
Se la vendetta è un fenomeno riconducibile al religioso allora il suo superamento sarà la traduzione di una ispirazione spirituale che ridia un senso alla vita umana.
Se la vendetta è in relazione con la struttura identitaria della società allora necessitiamo di uno sforzo verso la convergenza nella diversità. Dovremmo universalizzarci culturalmente, geograficamente e nelle strutture sociali.
Se la vendetta è anche il risultato di emozioni negative, allora invece di reprimerle dovremmo trasformarle. Per questo abbiamo bisogno di elevare i nostri desideri perché quanto più si è violenti tanto più sono rozzi i nostri desideri.
Se oggi la giustizia non è altro che una vendetta mascherata allora occorre immaginare una giustizia che assuma il principio morale di trattare l’altro come vorremmo esser trattati per passare da una giustizia retributiva a una giustizia riparativa.
Abbiamo ancora molto da lavorare per superare la vendetta ma per quanto difficile, per quanto la situazione sociale non sembri favorevole…eppure, forse ancora timidamente, nell’orizzonte dell’essere umano, si sta preparando un nuovo salto evolutivo.