Sono 33 i giornalisti che festeggeranno l’arrivo del nuovo anno in carcere. La Turchia si vanta ancora una volta del numero di giornalisti detenuti.
L’ultima arrivata è Beritan Canözer, dell’Agenzia Stampa JinHa, tutta al femminile, arrestata il 16 dicembre durante una manifestazione per chiedere la fine del coprifuoco nel Sur, la città vecchia di Diyarbakir. Canözer si trovava là per documentare le proteste contro questa decisione del governo centrale. Dopo il suo arresto, basato su uno dei mille pacchetti sicurezza introdotti dal governo, Canözer è stata portata in carcere per aspettare l’inizio del processo, con l’accusa di “collaborazione con un’organizzazione terrorista”.
Secondo i giudici e il governo centrale le persone che si definiscono giornalisti sono terroristi o collaboratori di criminali; diamo un’occhiata alle motivazioni di alcune detenzioni.
Can Dündar ed Erdem Gül sono stati arrestati il 26 novembre e accusati di “appartenenza a un’organizzazione terroristica armata” e “pubblicazione di materiale in violazione della sicurezza dello Stato” (articoli 314, 328 e 330). Tuttavia nella documentazione che li ha fatti finire in prigione mancano ancora le prove di queste gravi accuse. Dundar e Gul non hanno fatto altro che parlare nel quotidiano per il quale lavorano, Cumhuriyet, del sequestro dei Tir avvenuto il 19 gennaio 2014, pubblicando le interviste con i giudici che sono stati poi denunciati e processati con le stesse accuse e le fotografie del giorno del sequestro, come avevano già fatto altri giornalisti.
Il processo di questi due giornalisti ha subito una svolta, portandoli in prigione, dopo la dichiarazione del Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan seguita all’abbattimento dell’aereo russo al confine con la Siria da parte dell’esercito turco: “Vi ricordate del caso dei Tir guidati dai servizi segreti e come qualcuno ha tentato di fare un colpo di stato sfruttando questo caso? Quei Tir portavano degli aiuti alle popolazioni turcomanne di Bayirbucak, in Siria. Adesso qualcuno si metterà a dire: “Secondo il Primo Ministro non c’erano delle armi in quei Tir.” “E allora? Stavamo portando degli aiuti umanitari in quella zona. Loro sono nostri fratelli in difficoltà. In questo gioco di spionaggio c’è un quotidiano coinvolto. Pagheranno caro quello che hanno fatto. Attraverso i nostri avvocati ho già avviato un procedimento legale”.
Nel 2012, quando la Turchia si vantava di avere 42 giornalisti in prigione, l’organizzazione non governativa Reporter Senza Frontiere la definiva come il “carcere più grande del mondo per i giornalisti”. In seguito i numeri sono scesi leggermente, ma le motivazioni per mettere dentro i lavoratori dell’informazione sono sempre le stesse.
Un altro elemento che il governo centrale sfrutta per limitare la libertà di stampa è l’articolo 313 del codice penale, che punisce chi “incita la popolazione per provocare una rivolta armata contro il governo centrale”. Infatti Cevheri Guven e Murat Capan, rispettivamente direttore e capo redattore della rivista Nokta, si trovano ancora in carcere con le accuse di “istigazione a delinquere” ed “eversione”. La loro vera “colpa” è l’aver pubblicato un fotomontaggio del Presidente della Repubblica nella copertina del ventiquattresimo numero della rivista, in cui Erdogan si fa un selfie davanti alla bara di un soldato morto. Il numero è stato ritirato dalle edicole e la sua distribuzione bloccata; poi Guven e Capan sono stati arrestati.
Il 17 dicembre sedici organizzazioni attive nel campo dell’informazione in Turchia e in vari paesi balcanici hanno diffuso una lettera aperta al Presidente Erdogan e al Primo Ministro Ahmet Davutoglu, in cui si dicono “preoccupate del fatto che il suo governo sta aumentando la pressione su alcuni media, perché non seguono una linea editoriale vicina alle politiche del governo. La pressione fiscale, i licenziamenti, gli sgravi fiscali ingiusti nei confronti dei media vicini al governo e le detenzioni prolungate nei confronti dei giornalisti sono alcuni dei mezzi che vengono utilizzati in Turchia per reprimere la libertà di stampa”.
Tra i detenuti non ci sono solo giornalisti o cittadini turchi. Il 27 agosto sono stati arrestati due giornalisti britannici e l’interprete irakeno Muhammed İsmail Resul, che lavorava per il portale giornalistico Vice News. Resul si trova in carcere in Turchia da circa 4 mesi ed è accusato di “collaborazione con un’organizzazione terrorista”. In settembre più di 70 giornalisti e scrittori hanno pubblicato una lettera aperta al Presidente della Repubblica chiedendo la scarcerazione di Resul; tra i firmatari c’erano Elif Safak, Monica Ali e diversi membri del Pen Club, la più antica organizzazione internazionale di letterati.
Ben otto giornalisti del quotidiano in lingua curda Azadiya Welat – Ali Konkar, Cengiz Dogan, Deniz Babir, Ensar Tunca, Ferhat Ciftci, Hamit Duman, Nuri Yesil e Seyithan Akyuz – si trovano tuttora in carcere. L’ultimo arrivato tra questi è Babir, arrestato con altri cinque giornalisti l’11 dicembre durante le pause del coprifuoco in località Sur. Mentre gli altri quattro sono stati rilasciati, Babir è stato portato in carcere con l’accusa di “appartenenza a un’organizzazione terrorista”.
Ormai sono più di tredici anni che la Turchia è governata dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), una realtà politica che si presenta come una ventata contro le oligarchie e la repressione dell’esercito e una nuova svolta popolare in difesa della libertà di scelta ed espressione dei cittadini. Tuttavia i numeri ed i fatti dimostrano che nel mirino dell’AKP ci sono anche tanti giornalisti, accusati e detenuti grazie alle nuove norme introdotte in questi anni.