Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, 
ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più
Hannah Arendt

1. La notizia data con un video da Giorgia Meloni sull’”avviso di garanzia”, in realtà una mera iscrizione nel registro di notizia di reato, ricevuto dalla Procura di Roma, e degli altri “avvisi” recapitati a Piantedosi, Nordio e Mantovano, è stata l’ennesima occasione, in un momento di grave difficoltà politica, per nascondere dietro il vittimismo di governo fatti e responsabilità. Ma Giorgia Meloni dovrebbe stare tranquilla, abbiamo già visto come in passato il Parlamento ha bloccato procedimenti penali a carico di altri esponenti politici, come nei casi Diciotti e Gregoretti, per il mancato sbarco dei naufraghi in un porto italiano. La Meloni potrebbe fare uno sforzo di memoria e ricordare che il processo Open Arms, che comunque non risulta definitivamente archiviato, è stato avviato, dopo un esposto di una ONG, un pronunciamento del Tribunale dei minori di Palermo, una ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo della regione Lazio ed un decreto di sequestro da parte della Procura di Agrigento, senza che il procuratore Lo Voi, che lei adesso chiama in causa con toni offensivi, avesse alcun ruolo nella fase di avvio della procedura, arrivata in Parlamento per l’autorizzazione a procedere su richiesta del Tribunale dei ministri di Palermo.

Rientra nella consueta politica del complotto, cifra di questo governo, anche la ricorrente affermazione di non essere “ricattabile”, senza neppure fare capire da chi, risolvendosi in un messaggio oscuro rivolto a destinatari indeterminati, quando è evidente che non ha nulla a che fare con l’aumento temporaneo degli arrivi dalla Libia, frutto soprattutto di una finestra meteorologica favorevole. Il vero ricatto lo praticano da anni le milizie libiche, variamente foraggiate dai diversi governi italiani. perché garanti non solo della detenzione disumana di migliaia di persone migranti intrappolate ed estorte in Libia, ma anche della funzionalità dei terminali da cui partono gli approvvigionamenti energetici del nostro paese. La differenza rispetto al passato consiste nel succedersi degli avvenimenti che hanno segnato la perdurante divisione della Libia, prima e dopo la caduta di Gheddafi. Prodi nel 2007, poi Belusconi nel 2008, Monti nel 2012Gentiloni e Minniti nel 2017, Conte, Salvini e D Maio nel 2018 e nel 2019, e poi persino la ex ministra dell’interno Lamorgese, almeno fino al 2020, trattavano con i libici da posizioni di forza, che permettevano loro pratiche di mediazione con le tribù e le milizie, al riparo da scandali, che oggi possono deflagrare, come nel caso Almasri. Adesso la situazione internazionale ha stravolto gli equilibri politici, militari, e criminali, da sempre interconnessi, in Libia, accrescendo i poteri di ricatto delle milizie che supportano gli opposti governi di Dbeibah e di Haftar nei confronti dell’Italia, un paese che è disposto a pagare anche bande criminali per difendere i propri confini, con la esternalizzazione delle frontiere, e il supporto alla sedicente guardia costiera libica. Ma anche per salvaguardare investimenti e rifornimenti energetici nelle diverse regioni in cui la Libia rimane divisa, in una fase in cui la concorrenza degli attori internazionali è sempre più forte.

2. Nessuno può negare oggi, di fronte al documentato atto di accusa della Corte penale internazionale, che i centri di detenzione sotto il controllo dei torturatori della milizia RADA di Almasri, fossero proprio i “centri governativi” non solo di Mitiga, ma anche di Ain Zara, e più recentemente Zawia, dopo lo scontro interno che aveva portato alla uccisione del comandante Bija, già ospite negli anni passati a Roma, del ministero dell’interno e della centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana. Per Bija la Corte penale internazionale non potrà più indagare, ma sarebbero numerose le incriminazioni che la Corte ha già pronte nei confronti di diversi rappresentanti delle milizie, per una serie di diffuse violazioni dei diritti umani in quel paese. Violazioni sistematiche, che dovrebbero portare alla immediata sospensione di ogni rapporto di collaborazione finalizzato all’arresto o al respingimento su delega, anche attraverso la prassi dei rimpatri volontari assistiti, che si vuole invece salvaguardare ad ogni costo. Anche a costo di dare copertura a torturatori come Almasri, capo della polizia giudiziaria di Tripoli ed esponente della potente milizia RADA.

Piuttosto che rilanciare la crociata governativa contro le “toghe”, utile per spingere sulla riforma della giustizia, con la separazione delle carriere e la riforma del CSM, quasi un regolamento finale dei conti, sarebbe forse meglio, per favorire la comprensione generale dei fatti, restare sui passaggi critici della vicenda Almasri che si è conclusa senza che le autorità italiane, nel loro complesso, rispondessero positivamente alla richiesta di arresto pervenuta dalla Corte penale internazionale. Tanto che la Corte dell’Aia ha rivolto una circostanziata richiesta di chiarimenti al governo italiano, che potrebbe preludere ad un deferimento al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per violazione dello Statuto istitutivo della CPI, siglato a Roma nel 1998. Lo Statuto di Roma, nella sua Parte Nona – dedicata alla Cooperazione Giudiziaria e all’Assistenza Giudiziale degli Stati parte alla Corte – all’articolo 86 fissa un “Obbligo Generale” per gli Stati parte di cooperare pienamente con la Corte per consentire di investigare e perseguire la commissione dei crimini nel contesto della giurisdizione della Corte. Il paragrafo 7 del successivo articolo 87 prevede, poi, espressamente che, nel caso in cui “uno Stato Parte non aderisca ad una richiesta di cooperazione della Corte, impedendole in tal modo di esercitare le sue funzioni ed i suoi poteri, la Corte può prenderne atto ed investire del caso l’Assemblea degli Stati parti o il Consiglio di sicurezza se è stata adita da quest’ultimo”.

3.Viene qui in rilievo quanto comunicato dalla Corte penale internazionale che ricostruisce tutte le fasi della procedura. dal quale emerge che questa Corte, d’intesa e in coordinamento con l’Ufficio del Procuratore presso la Corte (il Procuratore capo al momento è Karim A.A. Khan, KC ), già il 18 gennaio, giorno di emissione del mandato di arresto, “agendo in consultazione e coordinamento con l’Ufficio del Procuratore e sotto l’autorità della Camera, ha presentato una richiesta di arresto del sospettato a sei Stati Parte, tra cui la Repubblica Italiana. La richiesta della Corte è stata trasmessa attraverso i canali designati da ciascuno Stato ed è stata preceduta da una consultazione preventiva e da un coordinamento con ciascuno Stato per garantire l’adeguata ricezione e l’ulteriore attuazione della richiesta della Corte. La Corte ha inoltre trasmesso informazioni in tempo reale indicanti la possibile ubicazione e i possibili spostamenti del sospettato attraverso la zona Schengen europea. Parallelamente, come previsto dallo Statuto, la Corte ha inoltrato una richiesta all’INTERPOL di emettere un Avviso Rosso” . Come è stato possibile che fino al 21 gennaio pomeriggio, quando poi avveniva il rimpatrio in Libia di Almasri il ministro della giustizia con un suo comunicato dichiarava di essere ancora nella fase di valutazione della documentazione allegata alla richiesta di arresto pervenuta dalla Corte penale internazionale, senza fare pervenire alla Corte di Appello di Roma una richiesta di convalida dell’arresto già operato dalla polizia, se non una nuova richiesta di arresto immediato? Anche ammettendo che l’arresto operato il 19 gennaio fosse stato “irrituale”, a fronte della richiesta ormai in possesso del ministro della giustizia, ed oggetto della sua valutazione, come poteva disporre il ministro dell’interno, nella giornata del 21 gennaio, la espulsione per motivi di sicurezza del generale libico, prima che lo stesso ministro della giustizia avesse completato la sua valutazione nella doverosa interlocuzione con la Corte penale internazionale? Il generale Almasri, dopo la scarcerazione disposta dalla Corte di appello di Roma, non doveva certo essere considerato “un uomo libero”, da espellere in quanto “pericoloso”, in pendenza di un mandato di arresto della Corte Penale internazionale, che il ministro Piantedosi non poteva ignorare. Che ruolo hanno avuto la presidente del consiglio Meloni, ed il sottosegretario alla presidenza del consiglio Mantovano, nei giorni cruciali dell’arresto di Almasri in Italia e della preparazione del suo volo verso Tripoli, dunque anche nel coordinamento tra il ministro della Giustizia ed il ministro dell’Interno che disponeva il provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza nazionale?

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Il vittimismo di governo per nascondere fatti e responsabilità