Il Global Nonviolent Action Database riporta circa 40 casi di movimenti di massa che hanno sconfitto i tiranni attraverso strategiche campagne nonviolente.
Con Donald Trump che si appresta a entrare in carica dopo una campagna elettorale allarmistica che ha riacceso le preoccupazioni sul suo desiderio di diventare un dittatore, emerge una domanda ragionevole: la lotta nonviolenta può sconfiggere un tiranno?
Ci sono tante risorse eccellenti che rispondono a questa domanda, ma quella che ho in mente ultimamente è il Global Nonviolent Action Database, o GNAD, realizzato dal Dipartimento di Studi sulla Pace dello Swarthmore College negli Stati Uniti. Liberamente accessibile al pubblico e lanciato sotto la mia direzione nel 2011, questo database contiene oltre 1.400 casi di lotta nonviolenta provenienti da più di cento Paesi, a cui si aggiungono continuamente altri casi da parte di studenti ricercatori.
A colpo d’occhio, il database riporta almeno quaranta casi di dittatori rovesciati grazie all’uso della lotta nonviolenta a partire dal 1920. Questi casi, che comprendono alcune delle più grandi nazioni del mondo in Europa, Asia, Africa e America Latina, contraddicono l’idea diffusa che un dittatore possa essere sconfitto solo con la violenza. Inoltre, in ognuno di questi casi, il dittatore aveva il desiderio di rimanere e possedeva mezzi violenti per difendersi. Alla fine, però, non sono riusciti a superare il potere della lotta nonviolenta di massa.
In alcuni Paesi, il dittatore era già insediato da anni quando è stato cacciato. L’egiziano Hosni Mubarak, ad esempio, ha governato per 29 anni. Negli anni Novanta i cittadini di solito sussurravano il suo nome per paura di rappresaglie. Mubarak legalizzò lo “stato di emergenza”, che significava censura, poteri di polizia ampliati e limiti ai media. In seguito ha “ammorbidito” il suo governo, mettendo ad ogni manifestazione solo un numero di poliziotti dieci volte superiore al numero dei manifestanti.
Il caso di studio del GNAD descrive come gli egiziani abbiano fatto crescere il loro movimento democratico nonostante la repressione e abbiano infine vinto nel 2011. Tuttavia, conquistare una certa libertà non garantisce che essa venga mantenuta. Come ha dimostrato l’Egitto negli anni successivi, è necessaria una vigilanza continua e una campagna proattiva per approfondire il grado di libertà conquistato.
Alcuni Paesi hanno ripetuto l’impresa di deporre in modo nonviolento un governatore: in Cile, il popolo ha cacciato un dittatore nel 1931 e poi ha deposto un nuovo dittatore nel 1988. Anche i sud-coreani ci sono riusciti due volte, nel 1960 e nel 1987. (Hanno anche appena impedito al loro attuale presidente di assumere poteri dittatoriali, ma questo caso non è ancora presente nel database).
Comunque, la gente ha dovuto agire senza sapere quali sarebbero state le rappresaglie.
La rivoluzione pacifica della Germania Est
Quando nel 1988 i tedeschi dell’est iniziarono la loro rivolta contro la Repubblica Democratica Tedesca, sapevano che la dittatura lunga 43 anni era sostenuta dall’Unione Sovietica, che avrebbe potuto organizzare un’invasione mortale. Tuttavia, agirono per la libertà, che conquistarono e hanno mantenuto.
La ricercatrice Hanna King racconta che i tedeschi dell’est iniziarono nel gennaio 1988 la loro campagna andata a buon fine, trasformando la tradizionale marcia commemorativa annuale in una dimostrazione su larga scala per i diritti umani e la democrazia. Approfittarono poi della preghiera settimanale per la pace in una chiesa di Lipsia per organizzare raduni e proteste. I pastori luterani aiutarono a proteggere gli organizzatori dalle ritorsioni e i gruppi di altre città iniziarono a organizzare le loro “manifestazioni del lunedì”.
Le poche centinaia di dimostranti iniziali divennero rapidamente 70.000, poi 120.000, poi 320.000, tutti durante le manifestazioni settimanali. Gli organizzatori pubblicarono un opuscolo che delineava la loro visione di una Germania unificata e democratica e lo trasformarono in una petizione. I prigionieri di coscienza iniziarono scioperi della fame per solidarietà.
Nel novembre 1989, un milione di persone si riunì a Berlino Est, cantando e sventolando striscioni per chiedere la fine della dittatura. Il governo, nella speranza di allentare la pressione, annunciò l’apertura del confine con la Germania Ovest. I cittadini si lanciarono a colpi di mazza contro l’odiato Muro di Berlino e lo abbatterono. I funzionari politici si dimisero per protestare contro la continua rigidità del partito al potere e il partito stesso si disintegrò. Nel marzo 1990, poco più di due anni dopo il lancio della campagna, si tennero le prime elezioni democratiche multipartitiche.
Gli studenti fanno strada in Pakistan
In Pakistan furono gli studenti universitari (piuttosto che gli esponenti religiosi) a lanciare la rivolta del 1968-69 che costrinse Ayub Khan a lasciare il suo incarico dopo un decennio di dittatura. La ricercatrice Aileen Eisenberg dice che la campagna richiese poi l’unione di più settori della società per raggiungere la massa critica, in particolare i lavoratori.
Furono gli studenti, però, a prendere l’iniziativa e a correre i rischi iniziali. Nel 1968 dichiararono che lo slogan del governo del “decennio di sviluppo” era un imbroglio e protestarono in modo nonviolento nelle principali città. Cantavano e marciavano sulle note di una loro canzone intitolata “Il decennio della tristezza”.
La polizia aprì il fuoco in una delle manifestazioni uccidendo diversi studenti. In cambio, il movimento si espanse in termini di numeri e di appelli. I boicottaggi aumentarono, con masse di persone che si rifiutarono di pagare i biglietti degli autobus e delle ferrovie statali. I lavoratori dell’industria si unirono al movimento e praticarono l’accerchiamento delle fabbriche e degli stabilimenti. Seguì un’escalation della repressione governativa con nuovi omicidi.
Man mano che la campagna si espandeva dalle aree urbane a quelle rurali del Pakistan, le canzoni e il teatro politico del movimento prosperarono. Khan rispose con più violenza, fatto che intensificò la determinazione di una massa critica di pakistani: era giunto il momento che se ne andasse.
Dopo mesi di crescenti azioni dirette, represse con la violenza, l’esercito decise che la propria reputazione era stata degradata dagli ordini impartiti dal Presidente e ne chiese le dimissioni. Il presidente si adeguò e furono fissate le elezioni per il 1970, le prime dall’indipendenza del Pakistan nel 1947.
Perché usare la lotta nonviolenta?
Come nelle campagne della Germania dell’Est e del Pakistan, in tutti i 40 casi manca un’ideologia pacifista, anche se alcuni individui attivi nei movimenti partivano da questa base. Ciò che sembra accomunare i casi è che gli organizzatori hanno visto il valore strategico dell’azione nonviolenta, dal momento che si trovavano di fronte a un avversario che probabilmente avrebbe usato la repressione con la forza. Il loro impegno per la nonviolenza ha poi schierato le masse dalla loro parte.
Questo mi incoraggia. Non ci sarà tempo per convertire un numero sufficiente di persone a un impegno ideologico verso la nonviolenza durante il regime di Trump negli Stati Uniti, ma c’è tempo per convincerle del valore strategico di una disciplina nonviolenta.
È sorprendente che in molti dei casi che ho esaminato, il movimento abbia evitato marce e raduni meramente simbolici e si sia invece concentrato su tattiche che impongono costi al regime. Mentre Donald Trump lotta per controllare le forze armate, ad esempio, immagino picchetti presso gli uffici di reclutamento dell’esercito con cartelli che recitano: “Non arruolatevi nell’esercito di un dittatore”.
Un’altra importante considerazione: le azioni occasionali che si limitano a protestare contro una particolare politica o un’azione grave non sono sufficienti. Possono alleviare temporaneamente la coscienza individuale ma, in definitiva, le azioni episodiche, anche quelle più grandi, non affermano un potere sufficiente. Il Global Nonviolent Action Database dimostra più volte che i risultati positivi derivano da una serie di azioni crescenti e collegate, chiamate campagne, la cui importanza è descritta anche nel mio libro How We Win.
Mentre gli studenti del Seminario di ricerca di Swarthmore continuano a scavare nella storia alla ricerca di nuovi casi, stanno scoprendo dettagli su lotte che vanno oltre la democrazia. I 1.400 casi già pubblicati includono campagne per promuovere la giustizia ambientale, la giustizia economica e razziale e altro ancora. Sono una risorsa per idee tattiche e considerazioni strategiche e ci incoraggiano a ricordare che anche i dittatori di lunga data sono stati fermati dal potere delle campagne nonviolente.
Traduzione dall’inglese di Mariasole Cailotto. Revisione di Thomas Schmid.
L’autore: George Lakey è attivo nelle campagne di azione diretta da 60 anni. Di recente pensionato dallo Swarthmore College, è stato arrestato prima nel movimento per i diritti civili e più recentemente nel movimento per la giustizia climatica. Ha organizzato 1.500 workshop in cinque continenti e ha guidato progetti di attivismo a livello locale, nazionale e internazionale. I suoi dieci libri e numerosi articoli espongono una ricerca sociale sul cambiamento a livello di comunità e di società. Il suo ultimo libro è il memoir Dancing with History: A Life for Peace and Justice.”