“A” arriva in Italia oggi, 25 dicembre, con un volo di linea e un regolare visto di ingresso ottenuto nell’ambito del procedimento giudiziale, dopo essere rimasto 6 anni privo di ogni forma di protezione. Così ha deciso il Tribunale Civile di Roma. Ecco la storia raccontata dai suoi avvocati e avvocate. Esiste infatti un diritto che non può essere bloccato dai “respingimenti collettivi”.

Era stato riportato in Libia insieme a più di 270 persone dal mercantile Asso 29 con il
sostegno dalle autorità italiane. Il Tribunale Civile di Roma ha riconosciuto la illegittimità di questa condotta, stabilendo il diritto di «A» a entrare in Italia.

Questo arrivo ha un eccezionale significato simbolico: rende effettivo il diritto di asilo sancito dalla Costituzione, sistematicamente violato dalle pratiche di respingimento nel Mediterraneo dove le autorità italiane, anche con la complicità di società private, ostacolano l’arrivo via mare di coloro che cercano protezione in Europa.

«A» faceva parte di un gruppo di oltre 270 persone respinte illegalmente in Libia tra il 30 giugno e il 2 luglio 2018 tramite il mercantile italiano Asso 29 di proprietà della Augusta Offshore, con sede a Napoli. L’episodio è stato eseguito su ordine e con il coordinamento delle autorità italiane operanti in Libia. Il Tribunale civile di Roma ha accertato la dinamica illecita del respingimento, avvenuto in violazione dei princìpi sanciti dalla giurisprudenza delle corti internazionali che avevano già condannato l’Italia per quanto accade nel Mediterraneo. L’intercettazione dei migranti e il successivo respingimento illegittimo – ha inoltre accertato il Tribunale – sono il risultato del contributo logistico, di supporto e coordinamento fornito delle autorità italiane. Questa condotta ha quindi violato le “obbligazioni positive” che impongono agli Stati di prevenire atti di tortura o trattamenti inumani.

Durante le operazioni di salvataggio, le autorità intervenute e i comandanti delle navi coinvolte devono sempre garantire che i naufraghi siano sbarcati in un luogo sicuro, indipendentemente da chi coordini effettivamente le attività di soccorso. Nel caso della Asso 29, infatti, questo principio non viene meno neppure se intervengono le autorità libiche o se la richiesta di soccorso proviene da esse, come già affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza sul caso della Asso 28 (della medesima società armatrice).

L’arrivo di «A» è il risultato di una battaglia legale che ha portato il Tribunale di Roma a ribadire un principio fondamentale: le persone respinte devono vedersi reintegrato il loro diritto all’asilo mediante la possibilità di entrare materialmente in Italia e presentare la domanda di protezione internazionale. Solo così si può evitare il prodursi di uno svuotamento degli obblighi di protezione. Il caso è stato seguito da un ampio collegio difensivo (*) dell’Asgi con il sostegno del progetto Oruka1 dell’associazione e del Josi&Loni Project. Insieme queste associazioni hanno ricostruito e documentato l’evento e sono riuscite a ottenere finalmente giustizia, seppure le sentenze siano state appellate. Ancora molte delle persone respinte si trovano fuori dall’Unione europea senza alcuna forma di protezione.

(*) Di cui fanno parte i seguenti avvocati: Giulia Crescini, Cristina Laura Cecchini, Lucia Gennari, Luca Saltalamacchia, Salvatore Fachile, Ginevra Maccarrone, Loredana Leo.

DICHIARAZIONI DELLE LEGALI E DELLE ASSOCIAZIONI

“Il Tribunale di Roma con le decisioni sul caso Asso 29 ha messo in luce la palese illegittimità di quello che è tutt’altro che un caso isolato. Ogni giorno nel Mediterraneo le autorità italiane realizzano un contributo fondamentale affinché le persone vengano intercettate e riportate in Libia spesso con la collaborazione di attori privati che realizzano la condotta materiale illecita di riconsegnare le persone in fuga alle autorità libiche”, hanno affermato Cristina Laura Cecchini e Lucia Gennari del progetto Sciabaca e Oruka di Asgi.

“Senza la fondamentale attività di ricostruzione e documentazione dei fatti del JL project e dei suoi attivisti non sarebbe stato possibile fare giustizia. Questo ci ricorda come i diritti delle persone, soprattutto nel Mediterraneo, necessitano di quella fondamentale attività di monitoraggio e documentazione che oggi le autorità italiane vorrebbero ostacolare anche attraverso la criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che operano i soccorsi in mare” aggiungono Giulia Crescini e Ginevra Maccarrone del collegio difensivo. “«A»è il primo ad ottenere giustizia. Il primo tra oltre seicento persone che il JL Project ha rintracciato e identificato come vittime di respingimenti illegali nei lager libici compiuti dal governo italiano. Il suo arrivo, oggi, è un meraviglioso inizio”, commenta Sarita Fratini del JL Project.

La condotta tenuta dallo Stato italiano, dall’armatore e dal capitano della nave ha determinato la violazione di numerose norme di diritto interno, internazionale e comunitario e dei diritti fondamentali dei cittadini stranieri sottoposti a rimpatrio. Come è emerso nell’ambito del procedimento le autorità italiane hanno determinato l’intercettazione di persone in fuga dalla Libia e hanno fornito un contributo essenziale che ha determinato il respingimento operato dal Comandante della nave Asso 29 che ha ricondotto i migranti nel porto di Tripoli. Le autorità italiane, attraverso una serie concatenata di comportamenti illegittimi, hanno reso possibile il respingimento. Tali condotte sono state realizzate nonostante la piena consapevolezza degli abusi e delle violazioni sistematiche che avvengono nei centri di detenzione libici e del rischio di refoulement nel Paese di origine a cui i migranti sono esposti in Libia.

Infatti tra il 30 giugno e il 2 luglio 2018 con il materiale sostegno delle autorità italiane, la “guardia costiera libica” per mezzo di una delle motovedette fornitegli dall’Italia ha effettuato una serie di intercettazioni in mare. Nel corso delle operazioni coordinate dalle autorità italiane era presente anche la Nave Duilio che, nonostante il sovraffollamento della motovedetta libica e le condizioni meteo in arrivo decideva di non effettuare il soccorso per non portare le persone in Italia. A seguito dell’avaria della motovedetta libica la nave Caprera della Marina Militare ordinava alla Asso 29 di intervenire. Tutte le persone salite a bordo della nave della società privata venivano ricondotte in Libia. Per tali motivi e per gli specifici diritti e obblighi violati, la situazione è stata dichiarata illegittima dal Tribunale di Roma e ha portato all’accertamento del diritto all’ingresso di «A».

Quanto avvenuto il 25 dicembre a Fiumicino è facilmente comparabile con quello che ha portato la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia nel caso Hirsi Jamaa e altri. Si tratta di una situazione estremamente comune ed ancora oggi tristemente attuale nel Mediterraneo dove quotidianamente persone intercettate vengono respinte in Libia con il supporto fondamentale dell’Italia.

Il diritto di ingresso sul territorio come presupposto necessario per l’esercizio del diritto di asilo. Il respingimento ha in primo luogo determinato l’impossibilità per i cittadini stranieri di chiedere asilo, in violazione della Convenzione di Ginevra e dell’articolo 10 della Costituzione italiana. La limitazione della libertà di circolazione ha infatti come diretta conseguenza il mancato accesso alla protezione internazionale e all’asilo. Il presupposto necessario del diritto di asilo è evidentemente il diritto di accesso al territorio che è stato negato ai cittadini stranieri attraverso il respingimento in questione.

Il divieto di respingimenti collettivi. Per la dinamica del respingimento è evidente che in nessun momento le autorità italiane, seppur responsabili dell’operazione, hanno condotto un’analisi della situazione individuale dei cittadini stranieri per valutare l’esistenza di rischi connessi al rimpatrio. L’assenza di questa valutazione determina la violazione del divieto di respingimenti collettivi stabilito dall’articolo 4 del protocollo addizionale 4 alla Convenzione europea per i diritti umani e dell’articolo 19 del Testo unico sull’immigrazione che vieta il rimpatrio verso uno Stato in cui la persona rischia di subire torture o persecuzioni. Oltre ai rischi corsi in Libia, le autorità italiane avrebbero dovuto valutare anche i rischi connessi a un eventuale rimpatrio dalla Libia all’Eritrea, Paese di origine dei ricorrenti. Inoltre occorre tenere presente che il respingimento collettivo verso uno Stato come la Libia, impedisce alla radice qualunque accesso alla giustizia e qualunque diritto a vedere la propria posizione esaminata in maniera effettiva da un organo indipendente.

La violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Come dimostrato dalle vicende dei ricorrenti, il respingimento ha determinato la loro esposizione al rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti, vietati dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel momento in cui è avvenuto il respingimento, erano ben note le condizioni a cui sarebbero stati sottoposti i naufraghi al loro ritorno in Libia. In proposito, la Corte europea dei diritti umani ha chiarito, nella sentenza del caso Hirsi Jamaa, come la proibizione della tortura sia assoluta e inderogabile: le istanze di controllo della migrazione o le eventuali situazioni di emergenza non legittimano in alcun modo condotte che espongono le persone a tali rischi.

Il diritto a essere condotti in un luogo sicuro (POS). Le norme internazionali relative al diritto del mare (UNCLOS, Convenzione SAR, Convenzione SOLAS) stabiliscono che i soggetti coinvolti in un soccorso – in questo caso Stato italiano, armatore e capitano della nave – si liberano della loro responsabilità solo conducendo le persone soccorse in un “luogo sicuro”. A questo obbligo corrisponde lo speculare diritto delle persone soccorse. La nozione di luogo sicuro non è limitata alla sola protezione fisica delle persone, ma comprende anche il rispetto dei loro diritti fondamentali, come stabilito dalla Risoluzione 1821 del 2011 del Consiglio d’Europa. Il luogo è quindi da intendersi sicuro ove non sussista il rischio che la persona sia soggetta a tortura, trattamenti inumani e degradanti, dove non è a rischio la sua vita e la sua libertà. Alla luce di questa definizione, Tripoli non può in alcun modo essere considerato un posto sicuro per i cittadini stranieri: sono infatti note le dinamiche sistematiche e istituzionali di detenzione arbitraria, tortura ed estorsione.

I fatti del 2018. «A» era arrivato nel Paese dopo aver lasciato il Sudan, nel tentativo di trovare protezione. In Libia, tuttavia, ha subìto abusi e gravi violazioni dei propri diritti. Il 30 giugno 2018 aveva così deciso di partire, sperando di riuscire a giungere in Europa e ottenere finalmente protezione.
Dopo circa un giorno in mare, il gommone sul quale «A» era imbarcato aveva iniziato a mostrare segni di cedimento e la navigazione si era fatta estremamente difficoltosa. Una delle persone a bordo era riuscita a contattare via radio la Guardia costiera italiana e a chiedere soccorso. Le autorità italiane non erano intervenute direttamente nonostante fosse presente in mare anche la nave Duilio della Marina Militare che avrebbe potuto effettuare il soccorso. Al contrario, si erano messe in contatto con la motovedetta libica Zuwarah, che aveva raggiunto il gommone quando questo era già affondato. La Zuwarah aveva operato il salvataggio dellɜ 18 superstiti, tra lɜ quali «A», coadiuvata dall’elicottero della Marina militare italiana Eliduilio.

Con il supporto e il coordinamento delle autorità italiane la Zuwarah, donata ai libici dall’Italia, aveva portato a termine ulteriori intercettazioni con un conseguente incremento del numero di persone a bordo della motovedetta (262 secondo il resoconto della stessa Augusta Offshore nel corso del giudizio). La motovedetta libica, a causa del sovraffollamento e delle condizioni meteomarine avverse, non poteva proseguire la navigazione. Le autorità italiane a bordo della nave militare Caprera, di stanza nel porto di Tripoli, diedero istruzione al comandante della Asso 29 di prestare assistenza alla Zuwarah. L’imbarcazione privata era in quel momento sulla rotta che da Tripoli la conduceva alla piattaforma petrolifera Bouri Field, tra le più grandi del Mediterraneo.

La Asso Ventinove giunse sul posto, dove era presente anche la nave della Marina Militare italiana di stanza a Tripoli “Duilio”, che a sua volta agiva seguendo le indicazioni provenienti dalla Marina italiana. I passeggeri furono così trasferiti sull’imbarcazione privata. Quando le operazioni di trasbordo si conclusero, la Asso Ventinove si diresse verso Tripoli, trascinando a rimorchio anche la motovedetta libica. A bordo della Asso Ventinove salì anche un ufficiale libico, che, alla presenza del capitano della nave, comunicò ai naufraghi che se non avessero protestato sarebbero stati condotti in Italia. L’ufficiale, per tutta la traversata, si occupò dell’organizzazione dei naufraghi. Il 2 luglio la nave arrivò dinanzi al porto di Tripoli dove consegnò lɜ naufraghɜ alle autorità libiche che li condussero a terra su imbarcazioni più piccole. La Asso Ventinove, terminati i trasbordi, riprese la sua rotta originaria.

Dal procedimento giudiziale sono emerse le seguenti indiscutibili circostanze:

  • Le intercettazioni dei naufraghi da parte dell’autorità libica sono il risultato dell’attività di supporto e coordinamento delle autorità italiane. Sono le stesse che hanno effettivamente rintracciato le imbarcazioni in distress e che, nonostante la vicinanza, hanno scientemente deciso di non intervenire facilitando l’arrivo della motovedetta libica per evitare di essere costrette a portare le persone in Italia.
  • La Asso 29 è intervenuta su richiesta delle autorità italiane che, come quotidianamente accade nel Mediterraneo, forniscono istruzioni dichiarando formalmente di agire “per conto” delle autorità libiche.
  • Le autorità italiane avrebbero dovuto intervenire in adempimento alle obbligazioni positive imposte dalla legge ed evitare che le persone fossero riportate in Libia.

Cosa accadde ai naufraghi ricondotti in Libia? Dopo lo sbarco «A» e le altre persone respinte furono arbitrariamente detenute in diversi centri: Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan. Tutti – uomini e donne – furono sottopostɜ a condizioni di vita atroci: sovraffollamento, cibo e acqua insufficienti, condizioni igieniche drammatiche e scarse possibilità di uscire all’aria aperta. In queste condizioni furono maltrattatɜ, abusatɜ, fu loro estorto denaro, assistettero a omicidi e torture.

 

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