Il regime di Assad è caduto. I ribelli – capeggiati dal gruppo di Hay’at Tahrir al-Sham, ora in una nuova veste istituzionale – hanno preso prima Aleppo e poi Damasco, in un’offensiva lampo durata pochi giorni. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stato TASS il dittatore siriano sarebbe fuggito in Russia. Cosa significa per il Cremlino la destituzione di Assad e la perdita di un alleato che pareva ormai stabile al potere?

L’intervento militare nel 2015

Per capire cosa significhi la perdita dell’influenza in Siria per la Russia dobbiamo tornare al 2015, quando Putin decise di inserirsi nel conflitto al fianco di Assad. Quali erano, allora, gli interessi russi? Riassumendo in un punto, il Cremlino ne guadagnò in termini di proiezione internazionale.

Dal punto di vista militare ebbe in concessione la base area di Khmeimim e il porto di Tartus – unico sbocco russo nel Mediterraneo.

Dal punto di vista politico, il supporto ad Assad significò un avvicinamento all’alleato iraniano e una voce in capitolo negli affari regionali mediorientali. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’intervento arrivò un anno dopo l’annessione della Crimea e poco tempo dopo il dichiarato supporto ai separatisti pro-russi nell’Ucraina orientale – e, in una parola, l’avvio delle ostilità in Donbass.

A fine settembre 2015 Putin in persona era volato a New York per discutere al summit sulla Siria delle Nazioni Unite, costringendo un riluttante Barack Obama al primo confronto faccia a faccia dopo due anni.

Ma a cosa sono servite, nel concreto, le truppe russe in Siria negli ultimi anni? Da una parte hanno rappresentato forse l’unico elemento di solidità dell’esercito del presidente Assad, di cui questa offensiva lampo ha dimostrato invece l’inefficienza. Dall’altra l’usufrutto del porto e della base aerea ha contribuito a consolidare un avamposto dall’importante posizione strategica, da cui, per esempio, far passare la “flotta fantasma”: navi cariche di gas russo battenti bandiera di Paesi terzi – a volte nemmeno assicurate – così da poter vendere comunque ai paesi europei aggirando divieti e sanzioni.

Va ricordato, infine, che il porto di Tartus è stato anche un importante base dalla quale trasferire equipaggiamento e personale per le scorribande degli Africa Corps russi.

Un assist a Mosca?

La Russia ha perso in Siria uno dei clienti più affezionati. Il regime di Assad, che sembrava aver raggiunto una sua stabilità e nei confronti del quale alcuni Paesi europei – vedi l’Italia – erano pronti a normalizzare i rapporti, sarebbe stata un’ottima carta da giocare negli affari mediorientali.

Ma, ciò nonostante, la fine dell’esperienza siriana non sembra essere una catastrofe per il Cremlino. Sotto un certo punto di vista, il disimpegno “forzato” in Siria permette a Mosca di reinvestire truppe, risorse ed equipaggiamenti altrove.

I fondi militari sono una coperta troppo corta, che inevitabilmente lascia scoperto qualcosa. E chissà che questa non sia l’occasione per giocarsi il tutto per tutto in Ucraina, in attesa dell’insediamento di Trump e dei futuri negoziati.

Anche dal punto di vista politico Mosca cade quasi in piedi. La fine di Assad ha riscosso poco interesse nell’opinione pubblica, che anzi si è rifatta agli argomenti della stampa nazionale: la Siria come un inutile spreco di denaro e uomini, una guerra che non apparteneva ai russi, un conflitto che non rientrava tra le priorità di nessuno.

Inoltre, la velocità con cui si sono mosse le cose e la quasi inesistente risposta militare da parte siriana hanno fatto sì che il Cremlino non si impegnasse in una assai più dispendiosa difesa del regime, limitandosi a bombardare, settimana scorsa, le posizioni dei ribelli a Hama, Idlib e Aleppo.

Strategicamente parlando, si può dire che la presenza in Siria non presentasse più i benefici per i quali la Russia aveva spalleggiato Assad.

L’avamposto nel Mediterraneo, salvo che per il commercio clandestino di materie prime e il vantaggio logistico, è virtualmente inutile sul piano prettamente militare. La Russia semplicemente non riesce a garantire una presenza abbastanza forte perché abbia qualche margine di manovra all’interno di un mare parecchio affollato.

Inoltre, da ottobre 2023 gli interessi regionali, soprattutto dell’Iran, sono cambiati, e il conflitto israelo-palestinese ha assorbito molte delle energie di Teheran, lasciando più o meno consciamente il fianco siriano scoperto. È difficile immaginare che la Russia fosse pronta a sobbarcarsi, sola, la difesa di Assad.

Dimensioni sempre meno globali

Per quanto Mosca possa cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno, è ovvio che la caduta di Assad non sia una buona notizia per la Russia.

Significa aver impiegato ingenti quantità di capitale umano, militare ed economico per finanziare un progetto che ha visto la sua fine in due settimane, dopo nove lunghissimi anni di repressione che non hanno portato a molto.

Significa, soprattutto, il venir meno di quel prestigio e quella proiezione internazionale per cui allora la Russia aveva deciso di investire nella Siria di Assad. La prima esperienza della presidenza Putin lontano dallo spazio post-sovietico si conclude con un buco nell’acqua e una dacia per l’ex presidente siriano.

Vale la pena aggiungere che quello del disimpiego lontano dalla propria “regione d’influenza” sembra una tendenza consolidata nella politica estera del Cremlino, che si trova a dover unire l’interventismo da superpotenza, da una parte, e una guerra in Ucraina che risucchia sempre più risorse.

Chissà che le priorità di Mosca non spingano verso un sempre maggiore allontanamento, per esempio, dalle missioni africane.

Intanto, nonostante il futuro quantomai incerto, la popolazione siriana festeggia la fine di Assad.

Davide Cavallini