Dal 15 al 24 novembre si è svolta la terza edizione del Festival “Fuori dal Ghetto”, un’edizione che ha ampliato il suo iter, abbracciando con alcuni eventi, oltre Rosarno, anche altri paesi della piana (tra cui Palmi, Camini, Cinquefrondi e San Ferdinando) e altri Comuni non calabresi (Carmagnola, Cisliano, Carignano, Santorso, Marigliano e Villa Peosa). Ad essere precisi, il festival non è ancora concluso, perché quel che si è completato è il tratto distintivo della sua storia, ossia la proiezione e premiazione dei corti in concorso, ma non così gli incontri, che ancora si prolungano nel mese di dicembre.
Il tema di quest’anno è il lavoro: il lavoro che non c’è, quello che dà dignità alla vita e quello che umilia, quello che può riscattare e quello che lascia ai margini della società e della condizione umana. E nel contesto in cui il festival nasce e vuole vivere, lo sguardo non può che essere quello dei braccianti, “della parte più sfruttata della catena del valore … di chi ha vissuto il ghetto, il ricatto e lo sfruttamento”, uno sguardo che ci può far consapevoli “di quanto ancora di coloniale ci sia nella cultura dell’Occidente. In quella che accoglie degradando, come in quella che respinge spaventando”. E, aggiungerei, in quella che respinge uccidendo e che “accoglie” deportando.
Non è perciò un caso se, all’interno di questo “festival ‘sgarrupato’ in cui si parla di lavoro, dove il primo premio è una cassa di arance prodotte senza sfruttamento”, come orgogliosamente rivendicato dai suoi organizzatori, la giornata del 24 novembre sia stata in gran parte dedicata a Norina Ventre, “Mamma Africa”, una persona che ha praticato e promosso come ovvia, direi come inevitabile tra esseri umani, l’accoglienza di quanti hanno vissuto la difficilissima condizione di lavoratori stranieri nella piana. Un’accoglienza fatta di calore familiare, di pasti caldi, di vestiario, di assistenza medica, ma soprattutto di una porta sempre aperta alle difficoltà, alle necessità, ai bisogni.
La giornata ha avuto inizio con la messa a dimora di un olivo in suo ricordo nel Giardino della Memoria di San Ferdinando; ed è proseguita con le testimonianze di chi ha conosciuto Norina Ventre e di chi con lei ha lavorato. L’Auditorium di Rosarno ha ascoltato, tra le altre, la testimonianza appassionata di Peppino Lavorato, già Sindaco di Rosarno dal 1994 al 2003, il quale ha tratteggiato con commozione un ritratto di Norina Ventre, da lui conosciuta “da sempre”: una donna generosa, concreta, limpida e coraggiosa, insensibile alle minacce giunte da più parti, capace di organizzare intorno a sé una molteplicità di iniziative a supporto di quanti vivessero in un bisogno non soltanto materiale, ma anche di rapporti calorosi e normali che ci riconoscono come umani. Segno di una stagione in cui a Rosarno, fin dall’inizio degli anni ‘90 e per otto anni consecutivi, il Natale si festeggiava in piazza tutti insieme e in cui molte attività venivano messe in campo anche dall’amministrazione per favorire una integrazione tra i cittadini di Rosarno e i lavoratori stranieri. Lavorato ha parlato di quanto diverso fosse all’epoca il clima, pur permanendo una grave condizione abitativa e di vita degli immigrati, ma, ha precisato, Norina “c’era già da prima”, “quando nessuno ne parlava”, e c’era ben prima che, a seguito della loro rivolta, tutta l’Italia conoscesse le disperate condizioni degli immigrati. Non è stata nostalgia, quella di Peppino Lavorato, se non nei limiti del dolore per qualcuno che non c’è più; è stato piuttosto il suo un indicare la strada, un ”si può ancora” – anzi un “si deve ancora”- riprendere a costruire ponti e relazioni.
Ha fatto poi seguito la proiezione del corto “A Chjana” di Jonas Carpignano, che ha per tema proprio la rivolta di Rosarno e in cui compare anche la figura di Norina Ventre e del documentario “Un mare di porti lontani. Omaggio di verità a chi tende le mani ai naufraghi del Mediterraneo”, che parla di un oggi tristemente noto, ma paradossalmente poco conosciuto nei suoi termini reali di sofferenza e illegalità.
Infine sono stati resi noti i corti vincitori del festival, che hanno visto assegnare il primo posto a “Le regole del gioco”, in cui bambini e ragazzi dei centri di accoglienza e delle comunità locali sono i protagonisti di un’esperienza e di un messaggio autentici.
La giornata è stata conclusa dalla testimonianza di Barbara Cassioli, un’attivista di Mediterranea che cinque anni fa portò a termine, per finanziare e pubblicizzare l’organizzazione, un viaggio “a piedi” ( cioè solo in autostop) da Bologna a Lampedusa e che oggi è tornata nei luoghi che a suo tempo l’avevano accolta e supportata; da quell’esperienza è nato un libro, che ricostruisce la rete dei rapporti e il cui introito va sempre a supporto di Mediterranea. Un bel modo per ribadire non solo che “si può e si deve costruire”, ma che lo si deve fare tutti insieme, contrastando in primo luogo un’ignoranza e un’avversione pianificate, costruite su menzogne e false paure alimentate ad arte.