“Nilo a Khartoum bene; qui è sporco” mi dice Suliman. A meno di un chilometro dalla casa dove si trova attualmente ad abitare c’è uno dei rami del grande delta del Nilo, fiume che lui ha ben conosciuto in un tratto diverso del suo corso. Questo fiume così lungo (6.600 e più Km) ne vede di paesaggi, luoghi, villaggi, e nel tempo ne ha vista di storia. Chi ha vissuto a Khartoum è vissuto “tra i due Nili, quello Bianco e quello Azzurro”; chi vive al Cairo si trova invece “impigliato” nel suo delta.

Ma è comunque una salvezza essere arrivati qua dove il Nilo non è affatto pulito, in questa città piena di rumori e di grida – Suliman lo ribadisce anche in questa telefonata – una città di gente che non dorme mai (“i supermercati sono aperti 24 ore”). Però una cosa buona c’è: fra tutti quei rumori “non c’è rumore di armi: l’unica differenza con Khartoum”, che immagino allora a sua volta piuttosto agitata e rumorosa.

Suliman e Fatima non hanno ancora avuto la testa – e soprattutto la salute  per andare a presentare la domanda di asilo all’ufficio addetto: davanti a quell’ufficio, mi racconta Suliman, c’è sempre una lunghissima fila, di 400-500 persone e per avere speranza di essere ricevuti bisogna piazzarsi lì davanti addirittura due-tre notti prima, e loro non stanno al momento bene per poterlo fare. “Gli impiegati lavorano lenti, non come in Italia e in Francia” (e qui la mia meraviglia – non manifestata – per essere stati messi, noi paese pieno di pecche e di lentezze burocratiche e non solo, accanto all’efficiente e concreta Francia); in un giorno riescono a riceverne 100 – dice (non mi sembra così poco, ma sicuramente è molto poco rispetto alle numerosissime richieste: sono diversi milioni i sudanesi che hanno riparato in Egitto). E conclude, a mo’ di giustificazione di una lentezza ‘ancestrale’: “Sono africani, arabi”.

Ma io voglio sapere della loro salute. Il racconto è questo: appena arrivati al Cairo, finalmente fermi in un posto sicuro, dove possono dormire in un appartamento, fare la spesa, avere dei parenti di riferimento, ecco che i mali – a lungo trattenuti dalle necessità inderogabili di proseguire il cammino o di resistere in un certo luogo pur stressante, malsano o pericoloso – si sono per così dire ‘liberati’. Sono andati entrambi in ospedale a fare analisi e visite mediche ed hanno ricevuto le opportune cure: Fatima per la sua malattia auto-immune, il Lupus, che davvero non si sa come sia riuscita a sopportare nel clima caldissimo e umidissimo di Port Sudan e sotto il sole di un’estate africana torrida vissuta necessariamente molto ‘all’aperto’; Suliman, ancor prima che per i reni e per la prostata, per un’infezione polmonare contratta proprio in quella inospitale città di Port Sudan. Mi ha spiegato: il dormire a terra per la strada in un luogo il cui terreno è pieno di salinità gli ha fatto respirare -gli ha detto il medico- questi sali e insomma da lì si sarebbe generata l’infezione. E’ stato per giorni -racconta- senza poter parlare e respirando a fatica, con febbre la notte, e a volte il suo respiro si bloccava del tutto (“Io pensavo io morto”). Ora ha una cura di antibiotici da fare per un mese e dice che già dopo una settimana va meglio. Una volta risolto questo problema, potrà occuparsi degli altri due.

Questo discorso ha risvegliato in me delle riflessioni che spesso mi trovo a fare: i migranti e i loro corpi, i migranti e la loro salute. Si tratta di persone -così noi le vediamo- per lo più giovani, in prevalenza maschi, e implicitamente attribuiamo loro forza fisica ed energie, ma quanti di loro sono malati, indeboliti dagli eventi del viaggio se non da situazioni anche precedenti (per non parlare di chi ha subito torture)? Quanti di loro non possono forse fare dei movimenti, hanno un male terribile in un punto o in un altro? Quanti di loro non potrebbero mangiare alcune sostanze, forse sono allergici? Quanti (tutti) hanno bisogno di sonno, sonno, sonno?

Persone che erano forti, ma che per lo meno in gran parte sono ora ‘scassate’ e avrebbero necessità di cure mediche urgenti, di medicazioni forse e in generale di cura. Ed eccole costrette a dormire due o tre notti per la strada per poter chiedere quello che come cittadini in fuga da un Paese in guerra, il loro, gli tocca per diritto internazionale. Qui siamo al Cairo, ma anche in Italia, quando gli uffici per gli immigrati si trovavano ancora dentro la città e non come poi è stato nelle estreme periferie, ricordo sempre lunghe file di gente in piedi (mai dei sedili!) e senza neanche un riparo in caso di pioggia. La primissima ‘accoglienza’ è dover affrontare direi ‘d’ufficio’ una serie di disagi fisici, quasi a misurare la loro resistenza.

Il Cairo è pieno di sudanesi: solo nel palazzo dove abitano Suliman e Fatima ci sono circa 10 famiglie. Proprio vicino al loro appartamento c’è un loro nipote con la moglie: vengono da Khartoum, hanno perso un figlio di 20 anni, ammazzato per strada nei mesi scorsi. Sono desolata, non gli chiedo neanche se siano stati i Janjaweed o i soldati dell’esercito cosiddetto regolare (quelli di Burhan, Il presidente). Che cosa cambia? Immensamente irregolare è solo la morte di un giovane di 20 anni. E così immagino che ognuno di quei milioni di cittadini sudanesi ora in Egitto si porti dietro lutti, sicuramente più di uno. Gli chiedo se fanno vita in comune, per esempio nei pasti: sì, con questi nipoti mangiano sempre insieme. Il giorno che è venuto a trovarli suo fratello con tanti altri parenti portando l’abbacchio la tavola si è estesa a tutti i sudanesi del palazzo.

E che ne è del nipote che stava con loro al campo di Kumer in Etiopia? Sono sempre in contatto, si erano sentiti stamattina: si trova ancora in Etiopia, al campo dove tutto il gruppo (circa 2.000 persone) si era spostato mesi fa, il campo di Istet, a soli 30 Km dal confine sudanese; non ci sono al momento problemi di sicurezza (aggressioni, furti, sparatorie anche con omicidi come era stato a Kumer), ma grossi problemi alimentari: ricevono cibo scarso e scadente. Ed è lì -in questi campi dell’Onu mal gestiti da funzionari locali- che cominciano le malattie, gli indebolimenti, per qualcuno più anziano il lento spegnimento.

Mi chiede che cosa succede qua. Gli parlo del film su Berlinguer visto in questi giorni: si incuriosisce e -pur non avendo vissuto in Italia in quegli anni- vuole sapere il titolo per poterlo cercare online. Mi dice che vuole studiare italiano. “Vuoi migliorare”, preciso io. Ma lui ritiene di parlare male la nostra lingua, di aver dimenticato tante parole e vuole andare a scuola. Oltre a una ricerca online gli consiglio di andare a informarsi al Consolato Italiano – sia mai facessero dei corsi. E’ una bella cosa questo suo desiderio/progetto di studiare la lingua italiana, “anche se non veniamo in Italia”, ma “perché l’italiano mi piace”: la vedo come una forma di restituzione verso l’accoglienza che sente di aver ricevuto nel nostro Paese, verso alcuni amici che lui considera preziosi. Forse in particolare è un omaggio al suo amico Pasquale che ci ha lasciato pochi mesi fa.

Intanto in Sudan la guerra continua a infuriare: un anno e sette mesi di follia omicida.

Link agli articoli precedenti:

https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/