Spunti di analisi e di riflessione sui principali contenuti, sociali e politici, della rielezione di Donald Trump.
Molte le ragioni e le “connotazioni sociali” della vittoria presidenziale di Donald Trump negli Stati Uniti: ragioni che si possono (si devono) discutere e problematizzare; che non possono tradursi in giustificazioni e compiacimenti; che non modificano il profilo del presidente eletto, un profilo reazionario, con una proposta politica che prospetta soluzioni al disagio e alla sofferenza di ampia parte della popolazione statunitense, ma concretizza provvedimenti a vantaggio dei ceti abbienti, di precisi segmenti dell’élite economica nord-americana; che si ammanta di una convincente retorica “antisistema”, pur essendo, come nella migliore tradizione populista, parte integrante di (una specifica componente) di quel medesimo “sistema”.
Non è la logica “sistema-antisistema”, dunque, a spiegare il risultato elettorale e il successo politico di Trump; molto meglio possono farlo l’analisi delle contraddizioni, delle polarizzazioni sociali, delle condizioni e degli effetti delle profonde e pesanti diseguaglianze sociali che attraversano in maniera lacerante gli Stati Uniti.
Il successo politico, intanto, è incontrovertibile, al punto che Trump stesso, nel “discorso della vittoria”, ha annunciato l’intenzione di unire, superare le divisioni, esasperate dai toni e dai temi della campagna elettorale, proprio in virtù del “successo” conseguito. Un’affermazione forse sfuggita a diversi commentatori, ma non banale, nella logica che muove l’impianto politico del personaggio e del suo entourage (che non è quello, evidentemente, del tradizionale establishment repubblicano). Lo dicono i dati. Nel momento in cui scriviamo, a Trump sono attribuiti 295 grandi elettori (maggioranza: 270); netto il successo nel voto popolare, con 72.641.564 voti pari al 51%, contro Kamala Harris ferma a 67.957.895 voti pari al 47.5%, con un vantaggio di oltre quattro milioni di voti popolari; conquista la maggioranza al Senato (52 vs. 44) e presumibilmente anche alla Camera (206 vs. 191). In più del 50% delle oltre 3.000 contee degli Stati Uniti vi è stato un significativo spostamento verso Trump. Ribalta, in sostanza, l’esito, in termini di voto popolare, delle elezioni del 2016, quando la Clinton ottenne quasi tre milioni di voti in più; adesso sono oltre quattro milioni in più per Trump.
In questo, come giustamente ha segnalato Alessandra Ciattini sulle colonne di Futura Società, vero e proprio “confronto tra peggiori”, Trump vince nelle aree storicamente conservatrici e nelle aree di più recente orientamento conservatore, quelle nelle quali le famiglie bianche impoverite hanno “cambiato idea” quando hanno immaginato che le soluzioni di Trump, apparentemente, fossero migliori per il proletariato impoverito (parafrasando il vicepresidente eletto, JD Vance, su cui torneremo). Dunque, la “cintura della Bibbia” e la “cintura della Ruggine”.
La Bible Belt è l’area degli Stati del sud degli Stati Uniti di radicamento conservatore e tradizionalista, legato soprattutto al protestantesimo cristiano e al movimento evangelico: Alabama, Arkansas, North Carolina, South Carolina, Georgia, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, Oklahoma, Tennessee, parte del Texas e parte della Florida. Praticamente, gli Stati meridionali della vecchia Confederazione, uno schema che evidentemente continua ad alimentare separazioni e nutrire immaginari.
La Rust Belt, la cintura della Ruggine è ciò che è diventata la storica cintura dell’acciaio (la Steel Belt), vale a dire la regione compresa tra i Monti Appalachi e i Grandi Laghi (la parte occidentale dello Stato di New York, Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Indiana, Michigan, Illinois settentrionale, Iowa, Wisconsin, fino al Minnesota), nucleo storico dell’industria statunitense (carbone, acciaio, siderurgia, metallurgia, meccanica, chimica, automobile) e del proletariato industriale statunitense, andato poi incontro, specie dagli anni Ottanta, a una crisi rovinosa.
Non si tratta di “Swing States”, si tratta dell’epicentro di una devastante crisi strutturale, economica, sociale, perfino morale, e di un prepotente terremoto politico: nel corso lungo della crisi (dovuta a molti fattori, il trasferimento a Ovest delle produzioni, l’incremento dell’automazione, la riduzione della manodopera, l’apertura agli scambi internazionali nella globalizzazione, la chiusura delle miniere di carbone, il declino della produzione di acciaio e in generale dell’industria), a fare data dal 1970 al 2010, le storiche capitali industriali, Cleveland, Detroit, Buffalo e Pittsburgh hanno perso ca. il 45% della popolazione e hanno subito il crollo del reddito medio familiare: a Cleveland e Detroit ca. -30%, a Buffalo -20%, a Pittsburgh -10%. Tutti gli indicatori di qualità della vita sono crollati; classe media e proletariato (non solo) bianco, abbandonati.
È il panorama, lo spaccato sociale, che descrive JD Vance (il vicepresidente eletto) nel suo bestseller, “Elegia americana” (Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis), uscito nel giugno 2016. Siamo ai piedi dei Monti Appalachi, proprio in quella regione, e lo sfondo è quello della cultura hillbilly (montanara, o appalachiana): lealtà, orgoglio, senso del lavoro, amore per la patria, ma anche arroganza, prepotenza, individualismo, diffusione della violenza (anche e soprattutto della violenza domestica), «giustizia con le proprie mani». A metà tra memoria e autobiografia, critica sociale e romanzo di formazione, è la storia dell’autore, un’infanzia estremamente dura e povera, la storia di povertà e lavori manuali della famiglia, l’assenza del padre, la tossicodipendenza della madre e l’alcolismo dei nonni, su uno sfondo di desertificazione economica e sbandamento sociale. L’autore, JD Vance, inizialmente su posizioni moderate, lontane da Trump, ne riceve l’endorsement nelle elezioni per un seggio di senatore in Ohio tra il 2021 e il 2022, e ne diventa a sua volta uno dei più convinti sostenitori, perché, dice, “ha le idee migliori per il popolo americano”.
Di fronte allo sconcerto dell’establishment democratico (e di buona parte degli opinionisti europei) è stato proprio il New York Times, all’indomani della vittoria di Trump, a mettere il dito nella piaga: “Trump è esattamente quello che siamo, quantomeno la maggior parte di noi” e “Trump è una forza trasformativa che ridefinisce gli Usa a propria immagine e somiglianza”. Una vittoria elettorale di tale portata si spiega dunque attraverso l’intero prisma: la capacità di fare convergere nel consenso tanti mondi pur distanti tra di loro (grande impresa legata al mercato nazionale; interessi di lobby, si pensi a quella delle armi, variamente collocate; comunità non WASP; proletariato e sottoproletariato urbano e marginale; America profonda); la retorica antiestablishment propriamente populista; la capacità di costruire mobilitazione: nel suo discorso della vittoria, Trump fa due volte riferimento al MAGA Movement che è il Movimento “Make America Great Again”, un vero e proprio movimento d’opinione a sostegno del presidente eletto e delle sue politiche.
Tra campagna elettorale e “discorso della vittoria”, molti contenuti “di programma”, talvolta leggendo tra le righe, sono emersi. Partiamo dall’economia. Anzitutto, il protezionismo economico. Come Trump ha ricordato in una recente intervista a Fox News: “La parola ‘dazio’ è molto bella. Una parola che renderà di nuovo ricco il nostro Paese”. Ha anticipato alcune idee: dazi tra il 10% e il 20%, dazi del 60% sui prodotti cinesi, dazi del 200% sulle auto prodotte in Messico, con l’obiettivo di aumentare le entrate per il sostegno all’economia e gli investimenti, rivitalizzare il mercato interno, difendere le industrie nazionali e riportare lavoro negli Usa. In politica monetaria ha alluso alla possibilità di esercitare maggior controllo e ipotetici poteri di indirizzo anche sulla Federal Reserve (la Banca centrale) soprattutto in materia di tassi di interesse (costo del denaro). In politica fiscale (uno dei veri volti di questa destra), estensione e potenziamento dei tagli fiscali (la riduzione delle tasse per le grandi ricchezze e i grandi patrimoni) decisi nel 2017. Con quella riforma, è bene ricordarlo, si riduceva la tassazione sui redditi delle imprese dal 35% al 21% e si riformulavano scaglioni e aliquote sui redditi delle persone in modo da colpire proprio i redditi più bassi (un aumento delle tasse di oltre 200 dollari per il 20% della popolazione più povera) e avvantaggiare i più ricchi (una riduzione delle tasse di oltre 9.000 dollari per l’1% della popolazione più ricca). Grattata via la retorica, come sempre, il vero volto della destra.
Quanto all’immigrazione, vero e proprio cavallo di battaglia della campagna trumpiana, potenziamento del controllo dei flussi migratori, “blindatura” dei confini e “deportazione” di 12 milioni di immigrati irregolari. E poi, sulla politica estera, tutta all’insegna di isolazionismo, pragmatismo e vantaggio competitivo, la dichiarazione forse più richiamata nel discorso della vittoria: “Non inizierò nuove guerre, metterò fine alle guerre in corso”. Riecheggiando il discorso elettorale al Madison Square Garden: “Metterò fine alla guerra in Ucraina. Metterò fine al caos in Medio Oriente. Eviterò la Terza Guerra Mondiale”. Cui ha prontamente replicato il Ministero degli Esteri della Federazione Russa, chiarendo di non farsi “illusioni” su Trump, rappresentante della “élite politica al potere negli Usa” che punta al “contenimento di Mosca”, indipendentemente dal colore di partito.
Da alcune parti si giura sull’esistenza di un Piano Trump per l’Ucraina, una formula pragmatica del tipo “pace in cambio di territori”: alcune concessioni territoriali, una zona cuscinetto, forti investimenti per la ricostruzione. Intanto, però, sul Vicino Oriente, lo schema Trump prevede l’incondizionato sostegno a Israele, il più attivo coinvolgimento politico, diplomatico ed economico dei Paesi sunniti, in primis l’Arabia Saudita, e il rilancio di schemi di cooperazione basati sui cosiddetti “Accordi di Abramo”, promossi dalla precedente amministrazione Trump nel 2020. In quel contesto, Trump riconobbe Gerusalemme come capitale di Israele, negoziò accordi di “normalizzazione” tra Israele e alcuni Paesi arabi, si ritirò dall’accordo sul nucleare iraniano, e avanzò un piano catastrofico per la Palestina, che sarebbe stata ridotta a un bantustan, di fatto senza stato e senza sovranità.
Anche sul Venezuela, primo Paese al mondo per riserve accertate di petrolio, fu Trump a imporre un nuovo sistema pesantissimo e criminale di misure coercitive unilaterali; nel suo precedente mandato, è stato calcolato, furono imposte ca. 8.000 misure coercitive “contro Paesi che non condividono i suoi interessi”. “Interessi”: una parola chiave per capire a cosa davvero si riferisca Trump quando annuncia “una nuova età dell’oro” per l’America.
Riferimenti:
Donald Trump è il 47esimo presidente degli Stati Uniti: “Abbiamo fatto la storia”, Rai News Live Blog: https://www.rainews.it/maratona/2024/11/elezioni-presidenziali-americane-usa-2024-trump-harris-cronaca-in-diretta-aggiornamenti-minuto-per-minuto-election-day-1a811047-48f3-4128-8730-06f3fb70b485.html
Loretta Napoleoni, Come ha fatto Trump a vincere contro tutto e tutti, L’Antidiplomatico, 06 Novembre 2024: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-loretta_napoleoni__come_ha_fatto_trump_a_vincere_contro_tutto_e_tutti/56082_57569
La riforma fiscale di Trump: gli effetti e le previsioni. Tax Cuts and Jobs Act: le novità sulla tassazione statunitense, FTA Online News, Milano, 20 aprile 2018: https://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/riforma-fiscale-trump.htm
Muhannad Mustafa, The American Israeli Plan to eliminate the Palestinian Question, Rosa Luxemburg Stiftung, 8 giugno 2020: https://www.rosalux.ps/deal-of-the-century-the-american-israeli-plan-to-eliminate-the-palestinian-question-2-3079
Venezuela accusa gli Usa, contro noi più di 350 sanzioni, SWI swissinfo.ch, 28 settembre 2019: https://www.swissinfo.ch/ita/venezuela-accusa-usa-contro-noi-pi%C3%B9-di-350-sanzioni/45262228