Nel corso di una guerra, non sono le persone da compiangere che mancano. Basta scegliere: dal profugo al reduce, dal mutilato all’orfano. Nessuno però prova pena per me, perché?
Un giorno questa guerra finirà, verrà una pace, apparente forse, ma senza aerei e cannoni. Nessuno si preoccupa del fatto che per noi generali la pace è avvilente. Non ci credete? Lo è, lo è!
Altrimenti come spiegare le nostre reazioni stizzite ogni volta che si profila una mediazione diplomatica (non una soluzione, si badi)? È naturale che noi puntiamo i piedi e ribadiamo che per noi non cambia nulla. Noi andremo avanti a bombardare inesorabilmente. In realtà, noi generali, di qualunque esercito, temiamo il giorno in cui qualcuno firmerà una tregua, o peggio un armistizio.
Non è una questione di stipendio o di indennità di guerra. E non dovete credere a chi insinua che riceviamo provvigioni per ogni soldato avversario morto: non è vero, altrimenti non ci limiteremmo a bombardare i civili.
È una questione di utilità. Con la guerra il mondo è nelle nostre mani. Con la pace siamo disoccupati. A che serve un generale? A combattere. Ergo se non lo fa, ruba il pane alla nazione.
È triste dipendere dai politici. Non nego che ogni tanto io rimpiango le epoche dei colpi di stato. Per noi non c’è rispetto, non c’è considerazione. Quando un operaio perde il lavoro tutti solidarizzano con lui, quando succede a noi generali, tutti festeggiano: scendono nelle piazze, ballano tutta la notte, cantano, si ubriacano.
Un generale senza combattimenti è un bambino pagato per giocare alla guerra; suvvia è un ragazzo della via Pál. Nessun Nemecsek che muoia, solo qualche recluta suicida. Provate a immaginare la nostra tristezza. Tornare alla solita routine, nelle caserme, sommersi di carte bollate e domande di esonero (smidollata gioventù). Revisioni di mezzi e ispezioni di truppe. Che palle!
La guerra significa lavoro vero, impegno, dedizione, pienezza di sé, mansioni da uomini rudi, che trasformano il quartiere generale in un bivacco permanente. Persino la donna delle pulizie entra guardinga nella sala operativa, con una qual certa circospezione, perché tutta l’aria è pervasa di virilità. Forse teme di restare incinta. Ma si sbaglia. Noi abbiamo ben altro cui pensare.
Non c’è bisogno di donne. Ci mancherebbe altro. La guerra è molto più inebriante, checché ne dicano le truppe al fronte, i feriti o i moribondi. Non bisogna dare retta alle ultime parole degli agonizzanti, perché esternano buoni sentimenti solo per guadagnarsi il paradiso.
La guerra per noi generali, francamente, è bella. Ci riempie la giornata, la noia svanisce, rivitalizza le serate al circolo ufficiali: la strategia, la tattica, il pallottoliere per contare i caduti.
Le mogli, finalmente relegate nel loro ruolo di donne di casa, non possono più lamentarsi se rientriamo tardi, non sono più autorizzate a sospettare adulteri. C’è la guerra. L’emergenza è urgenza. Una dilatata pienezza di vita, come un innamoramento. Ogni gesto ha un surplus di significato, quasi metafisico: la vita, la morte… degli altri.
Anni e anni di identificazione cinematografica trovano una loro stupefacente realizzazione. Non di rado, mi stupisco: “Sono io che in questa grande sala, in buona compagnia, guardo la carta topografica della zona e appongo bandierine rosse per ogni obiettivo colpito? Sono io quello che ordinerà l’attacco, proprio io? Come nei film di guerra? Che bello, non mi sembra vero.”
E non credete a coloro che ritengono noi generali persone tetre, senza immaginazione. Anche noi siamo stati bambini, abbiamo nutrito le nostre fantasticherie infantili, anche noi, come tutti, abbiamo avuto desideri da realizzare. Ed ecco che la guerra, finalmente, materializza i nostri sogni d’infanzia.
C’è in certi gesti, a fianco della consapevolezza della gravità del proprio compito, il ricordo dei pomeriggi d’estate in cui si conquistava il territorio nemico: “tu vai di là, così li accerchiamo”. Il nostro era gioco o addestramento? Non date risposte prevedibili.
Non tutti coloro che hanno giocato alla guerra sono diventati generali. Ma è certo che anche noi generali, da piccoli, abbiamo giocato alla guerra. Alcuni sostengono che non abbiamo mai smesso. Non vi nascondo che in battaglia, talvolta mi capita di incantarmi rivedendomi vittorioso in pantaloni corti. Solo per qualche secondo, poi torno vigile e ricomincio a comandare.
Purtroppo la pace verrà, e non ci saranno psicologi per curare la nostra depressione. Sarà la pace vigliacca di chi non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo. La pace deve giungere solo quando gli eserciti hanno terminato la guerra. Per sconfitta di un contendente o per estenuazione di entrambi.
La battaglia perfetta è quella che termina per mancanza di combattenti. In epoche meno ipocrite e più virili l’esercito dipendeva dal Ministero della Guerra, oggi dal Ministero della Difesa, con palesi contraddizioni: da chi si difende un esercito che bombarda e invade un territorio a diecimila chilometri da casa? Col Ministero della Guerra questo non accadeva. La guerra si faceva dove era necessaria, e basta.
Per colmo di umiliazione dopo la pace, come contentino, ci verrà data una missione umanitaria. Che risarcimento è costringere a compiti di protezione, gente addestrata a uccidere? L’esercito è nato per la guerra, non per la pace. Da anni contestiamo questo uso improprio.
La missione umanitaria è un palliativo. Proteggere crocerossine, invalidi, donne, bambini. Organizzare estenuanti turni di guardia a difesa di città diroccate che nessuno assalta. Arrestare maldestri ladri di galline e borsaneristi. La truppa alla lunga si annoia, l’entusiasmo evapora, tra i militi dilagano l’alcool e i commerci sessuali, corruzione nelle alte sfere (è una litania che si ripete da tempo).
La guerra rende valorosi, la pace debosciati. Per mettere fine al degrado della pace è sempre necessaria un’altra guerra. Magari, per evitarci il disagio degli accampamenti – siamo pur sempre anziani – la si potrebbe fare un po’ più vicina a casa.
Da «Il Decreto Seneca e altri racconti», Librarsi Edizioni