Amy Foundation è una formidabile realtà sociale e solidale che aiuta ogni giorno più di mille giovani delle township di Città del Capo. Ma ciò che la rende davvero unica è la storia drammatica – e straordinaria – da cui è nata. La storia di Amy Biehl, attivista bianca anti-apartheid, barbaramente uccisa…

Aveva capelli lunghi e luminosi come raggi di sole, occhi profondi come l’oceano, un sorriso aperto e sincero come solo i giovani sanno donare. Amy Biehl era una studentessa intelligente, generosa, impegnata a combattere le ingiustizie sociali, anche quelle che avvenivano dall’altra parte del mondo. Dopo la laurea all’Università di Stanford, aveva lasciato la California per il Sudafrica, dove era diventata un’attivista anti-apartheid. Collaborava con gli esponenti dell’African National Congressper scrivere la nuova Costituzione, quella che avrebbe dato forma alla Nazione Arcobaleno. Aiutava i cittadini neri a registrarsi per le prime elezioni libere del Paese, programmate per la primavera del 1994. Sosteneva le comunità più diseredate delle township di Città del Capo, spaventose prigioni a cielo aperto disegnate dal regime segregazionista. Si muoveva in luoghi difficili in cui serpeggiavano frustrazione, rancore, voglia di vendetta nei confronti dei bianchi artefici di decenni di brutale oppressione.

Ed Amy era bianca. Il colore della sua pelle la condannò a morte il 25 agosto 1993, vittima di una paurosa ondata di tumulti e di violenze innescatesi nei ghetti neri. L’auto su cui viaggiava nella township di Gugulethu venne assaltata e saccheggiata da una folla inferocita che si avventò e infierì sul corpo della ragazza. Aveva solo 26 anni: più o meno l’età dei quattro giovani che furono condannati per il suo omicidio. Quella tragica morte fu uno dei tanti fatti di sangue che segnarono un periodo particolarmente turbolento per il Sudafrica – la difficile transizione verso la democrazia –, quando il Paese rischiò di sprofondare in una guerra civile.

Perché rievocarla oggi? Perché, a differenza di altri drammatici delitti, quello ai danni di Amy ha avuto un risvolto inaspettato, per certi versi clamoroso: dopo cinque anni di prigione, i quattro omicidi ottennero l’amnistia dalla Commissione per la verità e la riconciliazione, voluta dall’allora neopresidente Nelson Mandela e guidata dall’arcivescovo Desmond Tutu per sanare le ferite della storia. Incredibilmente, a perorare la causa dell’amnistia e della liberazione dei killer furono gli stessi genitori di Amy, che, pur devastati dal dolore, vollero perdonare quei ragazzi. Fu una decisione eclatante, potente, capace di spezzare la spirale dell’odio e della vendetta.

Non solo. Ispirati dai nobili ideali della figlia, i coniugi Biehl diedero vita a una Fondazione con l’obiettivo di aiutare i giovani delle comunità più bisognose di Città del Capo. E nell’ambizioso progetto coinvolsero gli stessi responsabili della morte di Amy, due dei quali accettarono di lavorare per la Fondazione, dedicando la loro vita a progetti di sviluppo sociale. Tutto questo ha a che fare coi valori dell’ubuntu, un concetto che riveste un’importanza fondamentale nella cultura bantu.

“Ubuntu” (traducibile con l’espressione “io sono perché noi siamo”) è l’insieme della qualità che legano il destino di un essere umano a quello dei suoi simili, è la consapevolezza che ciascuno può salvarsi solo grazie a una buona relazione con gli altri. Un proverbio xhosa riassume bene: Ubuntu ungammtu ngabanye abantu, “le persone sono persone attraverso le altre persone”. È una regola di vita, basata sulla compassione, il bene compiuto nei confronti dell’altro. L’ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, è una spinta ideale verso l’umanità intera, un desiderio di pace. Rispetto, tolleranza, fiducia nel prossimo. E perdono. Ubuntu significa tutto ciò, come ha insegnato ai sudafricani Nelson Mandela, un uomo capace di riconciliarsi con i carcerieri che lo avevano privato di 27 anni di libertà. E l’esempio di Mandela è stato raccolto dai coniugi Biehl.

L’epilogo della storia è prodigioso: oggi – a più di trent’anni dall’assassinio di Amy Biehl e dalla fine dell’apartheid – Amy Foundation è una formidabile realtà sociale e solidale che aiuta ogni giorno più di mille giovani delle township di Città del Capo, fornendo loro supporto nello studio, riparo dalla criminalità e opportunità di formazione professionale. In un Paese fortemente lacerato dalle diseguaglianze e dalla violenza, Amy Foundation è la dimostrazione vivente di come il perdono sia l’unica scelta coraggiosa in grado di rianimare una relazione umana straziata che si credeva irrecuperabile, ovvero irrimediabilmente compromessa. Il perdono è un dono perché viene offerto spontaneamente, senza che l’altro lo meriti o necessariamente lo chieda. È un dono anche per chi lo offre – un regalo che si fa a sé stessi –, perché il rancore è un fardello troppo pesante e logorante da portarsi appresso nella vita: conviene risparmiare forze fisiche e mentali per cercare di fare qualcosa di buono, affrancarsi dal peso insopportabile del risentimento per liberare la più potente forma di energia positiva a nostra disposizione: l’altruismo.

Perché fare del bene agli altri fa bene a tutti, anche a chi lo compie, come ricorda l’ubuntu. Provare per credere: con una donazione o una visita guidata ai progetti di Amy Foundation a Città del Capo: amyfoundation.co.za

Dal 22 aprile la rivista Africa organizzerà un viaggio in Sudafrica durante il quale si potranno visitare i progetti di Amy Foundation. Per maggiori informazioni: https://www.africarivista.it/sudafrica/

Marco Trovato

L’articolo originale può essere letto qui