Riprendiamo dalla newsletter del 2 novembre di “Famiglie Accoglienti” la Storia di Sulayman.
Sulayman, hai mai temuto di non farcela?
«No, mai.»
Neanche quando eri in carcere in Libia?
«Mai.»
Neanche quando non avevi più acqua in mezzo al mare?
«Credimi: mai.»
Come hai fatto a non abbatterti, Sulayman?
«Non lo so. Non esisteva un piano B: non potevo tornare indietro. Dovevo andare lontano dal Gambia. Sognavo una vita migliore. Ho avuto paura in Libia, quello sì. Non sapevo dove andare di preciso, ma sapevo dove non tornare.»
E ora che sei in Europa ce l’hai un sogno?
Abbassa gli occhi. Perché questo ragazzo rivolge lo sguardo a terra quando sorride.
«Una casa», risponde.
Un sogno ce l’ha, Sulayman Waggeh, nato alla fine del 2005 a Farafenni, trentamila anime e un ospedale, a due ore e mezzo di auto dalla capitale Banjul. Desidera una casa. Come quella che non ha mai avuto.
«Non ho ricordi di mia madre: è scomparsa quando avevo due anni. Mio padre Lamin faceva il contadino e ha trovato una nuova moglie. So di avere cinque o sei fratelli, ma per ora ne ho conosciuto solo uno. Non c’era spazio per me nella nuova famiglia di mio padre e sono andato a vivere con mia nonna alla medina Gunjur».
Il Gambia è una piccola nazione di 2,7 mln di abitanti completamente circondata dal Senegal. Gunjur è uno dei più grandi porti pescherecci del Gambia. La vita in riva all’oceano cambia per Sulayman.
«Mi piace il mare. Subito dopo la scuola, andavo a nuotarci e a giocarci a pallone con gli amici». Poi la sera Sulayman tornava sotto il tetto di foglie di palma. «La nonna mi preparava un riso speciale. Era il piatto più buono del mondo».
La Lonely Planet sostiene che Gunjur sia una comunità in cui il tempo scorre lento. È vero. Ma non per i turisti. Scorre lento perché le giornate, quando sei povero, sembrano non finire mai. A Gunjur il tempo si trascina soprattutto se sei bambino.
Secondo la Caritas in Gambia 6 persone su 10, con meno di un dollaro al giorno, vivono sotto la soglia di povertà assoluta. La miseria si presenta a Sulayman sotto forma di improvvisa scomparsa degli amici. Da un giorno all’altro, fanno perdere le proprie tracce. Senza preavviso. Senza un ciao-io-vado. Senza un abbraccio.
«Ho saputo che Yaya aveva preso “La Strada” solo quando ha chiamato sua madre per assicurarle che era vivo ed era arrivato in Francia. Fino a qualche mese prima eravamo inseparabili».
La chiamano “La Strada”. È il pericoloso viaggio che hanno raccontato, tra gli altri, il regista Matteo Garrone in “Io Capitano” e il giornalista Fabrizio Gatti in “Bilal”.
Il giorno in cui Sulayman capisce che Yaya ce l’ha fatta scatta la molla: «Non sapevo nulla dell’Europa e dell’Italia. Sapevo solo che volevo andare via. Volevo continuare a studiare e imparare un mestiere».
Così, senza mettere anima viva al corrente dei suoi propositi (men che meno la nonna), Sulayman racimola tutto quello che può e prende “La Strada”. È il 2020 e Sulayman ha solo 15 anni.
«Non potevo avvertire mia nonna. Avrebbe tentato di fermarmi. Così ho preso una corriera per Banjul e da lì un’altra per il Mali. A Bamako ho conosciuto altri gambiani e ho cercato un tetto sotto cui dormire. Poi ho iniziato a lavorare come muratore. Mi davano pochi centesimi di euro al giorno. Ma in Mali con quel che guadagnavo riuscivo a sopravvivere e a mettere da parte quanto sarebbe bastato per arrivare in Algeria e da lì in Libia».
La traversata del Sahara fino a Sabratah è ciò che per un occidentale contemporaneo più si avvicina al concetto di viaggio attraverso l’inferno. «Ci spostavamo di notte in trenta su un pickup. Stavamo in piedi impegnati a non cadere. C’erano anche bambini molto piccoli e donne. Alcuni non ce l’hanno fatta».
Sulle sponde sud del Mediterraneo, Sulayman si inserisce nella piccola comunità di gambiani che gli trovano da lavorare. Fa il muratore, ma impara anche qualche lavoretto di idraulica. Presto gli si presenta l’opportunità di imbarcarsi per Lampedusa.
Dopo qualche ora, una motovedetta della guardia costiera intercetta il pescareccio in cui è stipato in mezzo a tanti altri migranti. Tutti gli occupanti del barcone sono costretti a salire a bordo.
«La polizia libica era molto cattiva. Noi urlavamo di non aver fatto niente di male, loro ci picchiavano. Ci hanno riportato a terra e rinchiuso in un carcere. Per costringermi a entrare in cella mi hanno colpito con un bastone. È stato il momento più difficile, ma ho sempre pensato che ce l’avrei fatta. Non mi davano da mangiare tutti i giorni e ho preso la scabbia. Un mio caro amico è morto per un’infezione – è il racconto drammatico di Sulayman –.
Se fossimo rimasti ancora lì, avremmo fatto tutti la stessa fine. Abbiamo capito che le guardie drogavano il rancio perché, quando ci davano da mangiare, crollavamo storditi in un sonno lunghissimo. Allora una sera abbiamo deciso di non toccare cibo. Così ci siamo ribellati e siamo scappati. La polizia ci ha sparato contro. Per fortuna io non sono stato centrato».
La fuga di quella notte conduce Sulayman alla vicina Zoara. Sono seimila i chilometri che separano Zoara dal capanno della nonna ancora ignara della sorte del nipote. La stessa distanza che separa Roma dalla capitale dell’India. «Per un po’ la paura mi ha paralizzato», ammette Sulayman. Poi però il coraggio ritorna.
Novecento euro. Questo il prezzo pagato dal sedicenne all’equipaggio arabo che nel 2021 lo conduce, attraverso tre giorni di navigazione, a Lampedusa. «Sulla barca bevi quando e quanto dicono loro – ricorda –. Il terzo giorno l’acqua era finita».
Ma per fortuna sulla rotta c’è la nave di una ong che mette in salvo il carico umano in un porto sicuro. Lampedusa. «In Sicilia ho finalmente potuto chiamare mia nonna. Ce l’avevo fatta».
E la nonna cosa ti ha detto?
«Che era felice. Che aveva sempre saputo che avevo preso “La Strada”, anche se non gliel’avevo detto, e che aveva pregato per me.»
E poi?
«E poi mi hanno portato a Bologna e ho conosciuto Carlo Caleffi e i salesiani di Castel de’ Britti. Grazie a loro ho potuto studiare per due anni.»
Quando sei diventato maggiorenne, però, hai perso il diritto ad avere un tetto.
«Avevo paura di finire per strada. Però un giorno Carlo mi ha detto: ehi Sulay, c’è la Renner, un’industria che fa colori, e sta cercando gente che abbia voglia di lavorare.»
E tu?
«E io ho tanta voglia di lavorare.»
L’1 luglio 2024 Sulayman Waggeh è stato assunto a tempo indeterminato da Renner Italia nell’ambito del progetto di welfare abitativo in partnership con Cnos-Fap Castel de’ Britti.
A novembre sarà il primo a occupare i nuovi alloggi previsti da Renner per i futuri dipendenti rifugiati che arriveranno dai Salesiani. Oggi Sulayman confeziona i colori di Renner Italia.