Nel momento in cui scriviamo il sito Marine Traffic, che monitora la posizione di tutte le imbarcazioni nel mondo segnala la nave cargo MV Kathrin nel Mar Ionio, tra le coste calabresi e greche, ma solo pochi giorni fa era stata individuata ormeggiata in una delle banchine del porto MBM di Porto Romano, località nei pressi di Durazzo, in Albania.

Una nave carica di armi

Non una nave con un carico qualsiasi – la MV Kathrin – visto che, stando a quanto ammesso dallo stesso armatore, trasporterebbe otto container contenenti esplosivi diretti in Israele, oltre ad altri sessanta stipati di TNT con destinazione sconosciuta. Una situazione svelata già nell’agosto scorso da Francesca Albanese, relatrice speciale ONU sul territorio palestinese occupato, che aveva denunciato la preoccupazione che quel materiale potesse essere impiegato nella preparazione di ordigni destinati alle operazioni militari che Israele sta compiendo in Palestina, con un terrificante coinvolgimento della popolazione civile. Operazioni che Albanese non ha esitato a paragonare a una vera e propria “campagna genocidaria”. Un dramma vissuto con grande partecipazione anche in tutti i Balcani.

L’odissea dei respingimenti

Pochi giorni prima di arrivare in Albania le autorità maltesi avevano dapprima negato l’ingresso del mezzo nelle proprie acque territoriali e poi rifiutato di fornire qualsiasi tipo di assistenza, sostenendo che nel momento dato non sussistessero le condizioni di urgenza che, secondo la normativa internazionale SOLAS (Safety of Life at Sea), l’avrebbero invece resa obbligatoria.

Era il 10 ottobre ed è pertanto possibile che quelle condizioni si siano infine verificate e che alla nave sia stato quindi consentito di effettuare la necessaria sosta tecnica: solo congetture, ovviamente, ma plausibili, visto che la porta-container era salpata il 21 luglio dal porto di Hai Phong, in Vietnam, e che da allora aveva inanellato una lunga serie di dinieghi, primi tra tutti quelli di Namibia e Angola e, da ultimo, quello del Montenegro, grazie alla campagna di sensibilizzazione condotta da Amnesty International a livello globale.

Campagna che non era servita, però, in Slovenia, dove nonostante il presidio organizzato dagli attivisti dell’organizzazione davanti al porto di Capodistria e la risonanza nazionale assicurata dal partito della sinistra d’opposizione, Levica – intervenuto affinché non fosse permesso l’ingresso alla nave e fosse così difeso “il diritto umanitario internazionale e i diritti dei palestinesi” – l’Amministrazione marittima aveva infine concesso l’autorizzazione all’attracco per permettere alla nave il rilascio del carico destinato nell’area. Attracco che, infine, non sarebbe comunque avvenuto.

È in questo contesto, tra l’altro, che l’armatore tedesco è stato forzato a chiedere la revoca della titolarità della bandiera del Portogallo – Paese in cui la nave era registrata – a seguito delle pressioni esercitate dal governo portoghese, a sua volta messo con le spalle a muro dall’opposizione di sinistra, che lo aveva accusato di connivenza con Israele malgrado il Portogallo abbia interdetto l’esportazione di armi verso Tel Aviv.

La norma e le ipocrisie

Il riferimento al diritto umanitario evocato da Levica in Slovenia ha un suo effettivo riscontro nella normativa. È ancora Amnesty International a ricordarlo per bocca di Patrick Wicken, ricercatore su questioni militari, che sottolinea come il diritto internazionale umanitario proibisca “a tutti gli Stati di trasferire armi a una parte coinvolta in un conflitto armato quando vi è un chiaro rischio che ciò possa contribuire alla commissione di crimini di guerra“. Un’interdizione che si estende anche al semplice transito, proibendo l’accesso a qualsiasi porto lungo la rotta.

La presa di posizione della Namibia e degli altri Paesi non si inquadra quindi soltanto come una precisa scelta politica, ma si contestualizza nella mera applicazione di quanto previsto dalla legge. In questo senso la decisione di autorizzare l’ormeggio della MV Kathrin a Durazzo, qualora confermata e qualora non motivata da ragioni di necessità, si configurerebbe come una sua chiara violazione.

Fin qui la norma. Fuori da essa vi è il dramma di un’umanità allo stremo e di una comunità internazionale che non riesce a interrompere lo sterminio, destinato anzi a tracimare. Una comunità che, quand’anche dovesse passare la dottrina del presidente francese Emmanuel Macron per la moratoria della vendita delle armi a Tel Aviv, non appare in grado di fermare il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Una vicenda, questa, che mette a nudo un cortocircuito logico, che sarebbe fin ridicolo se non sottendesse la tragedia che stiamo vivendo. Da una parte si vendono le armi, fatto salvo poi ostacolarne il trasporto costringendo qualche povero cristo a farsi sballottare per i mari di mezzo mondo. C’è forse un inconscio tentativo di ripulirsi la coscienza, c’è di sicuro un’imbarazzante ipocrisia.

L’articolo originale può essere letto qui