Clima da caccia alle streghe, ieri 28 ottobre presso il Tribunale di Locri, alla terza udienza del processo, che vede Marjan Jamali sul banco degli imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Alcune testimonianze sono sembrate più ispirate a fondamentalismi religiosi e colorite da becere insinuazioni, fra cui lo stigma neanche troppo velato di non rispondere allo stereotipo della “buona madre”, piuttosto che puntuali e imparziali racconti dei fatti.
Anche ieri sono state rilasciate molteplici testimonianze “de relato”, dovute ad informazioni indirette e alla lettura dei verbali.
Dalla precedente udienza, tenutasi tre mesi addietro, lo Stato italiano continua a privare della sua libertà una giovane donna arrivata in Italia, rischiando la vita, per fuggire dalla violenza domestica e dall’oppressione del regime iraniano. Dopo sette mesi trascorsi in carcere, separata dal suo bambino, da fine maggio Marjan ha ottenuto gli arresti domiciliari. Sospesa in una bolla, in attesa di sapere se uno Stato che si professa democratico la punirà (con una pena che può arrivare a decine di anni di carcere) per aver migrato in cerca di una nuova possibilità di vita insieme al figlioletto (che le sarebbe stato strappato perché in Iran in caso di separazione i figli maggiori di 7 anni vengono affidati al padre).
I tre migranti che soli fra le 103 persone presenti sulla barca, hanno indicato in Marjan l’aiutante dello scafista, di cui la nazionalità e le generalità sono state dichiarate dagli stessi, in quanto privi di documenti, sono ancora irreperibili. I due sedicenti iracheni e l’iraniano durante la traversata hanno molestato sessualmente Marjan, che è riuscita a sottrarsi alla loro violenza, grazie anche all’aiuto di un altro migrante, accusato pure lui per vendetta. Le testimonianze sono state acquisite durante le Sommarie Informazioni Testimoniali (S.I.T.) raccolte dopo lo sbarco e, dunque, secondo la legge italiana hanno valore probatorio molto limitato.
Né si è presentata in udienza un’altra migrante, convocata anche lei come testimone per l’accusa, che a detta della PM potrebbe risultare anch’essa irreperibile.
Tutto l’impianto accusatorio si basa su deposizioni inattendibili, indizi insufficienti, dichiarazioni tradotte male e procedure illecite, così come è avvenuto nel caso dell’attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi che, dopo dieci mesi di prigionia, nel corso dell’udienza del 22 ottobre è stata finalmente scarcerata per “assoluta mancanza di indizi a suo carico”.
Alla fine dell’udienza Marjan ha preso la parola supportata dall’interprete: con rabbia, dolore e determinazione si è autodifesa da alcune accuse mossele dai testimoni di ieri, raccontando che alcuni comportamenti dopo lo sbarco le erano stati suggeriti da terzi per agevolare gli iter burocratici e che l’unica sua priorità era salvare il suo bambino e se stessa.
Purtroppo, le vicende di Marjan e Maysoon non rappresentano un’anomalia. La questione è strutturale. La stretta repressiva malcela una logica securitaria che criminalizza il diritto alla libertà di movimento, la stessa logica che ha creato ad hoc il reato di scafismo, una vera e propria aberrazione giuridica che si abbatte sulla vita di migliaia di persone che fuggono da condizioni di vita impossibili.
Con la nostra azione solidale continuiamo ad amplificare la voce di chi altrimenti rischia di soccombere all’azione repressiva di uno Stato, il nostro, che possiamo ogni giorno di meno definire uno Stato di diritto, con leggi e decreti che non garantiscono diritti fondamentali come la libertà di movimento e criminalizzano ormai persino la manifestazione del dissenso e di pensiero ed espressione.
Prossime udienze il 16 dicembre 2024 e il 20 gennaio e 10 febbraio 2025.
Comitato Free Marjan Jamali
Comitato Free Maysoon Majdi
Rete 26 febbraio