Riceviamo e volentieri pubblichiamo queste riflessioni di Enrico Calamai sulle sue esperienze di diplomatico, sul drammatico momento attuale e sul nostro compito di esseri umani.
Ho avuto la casuale fortuna di nascere a Roma, nel giugno del 1945, a guerra ormai finita, tuttavia ho svolto il mio lavoro di diplomatico in diversi contesti di guerra. Ho vissuto in prima persona la guerra sporca degli Stati Uniti d’America contro i governi progressisti e socialisti, democraticamente eletti, dell’America Latina. Sono stato infatti inviato a Santiago del Cile nel 1974, dopo il congelamento delle relazioni diplomatiche, per trattare circa la situazione dei rifugiati politici entrati nell’Ambasciata d’Italia, sottoposti a provocazioni di ogni tipo e incursioni dei militari, in prossimità dell’anniversario del golpe contro il governo della Unidad Popular di Salvador Allende, operato l’11 settembre del 1973 dal generale Augusto Pinochet, feroce burattino della Cia.
Un golpe che non esitava a manifestare apertamente la sua ferocia, per terrorizzare gli oppositori e che costrinse migliaia di militanti politici a trovare rifugio in diverse Ambasciate. Tra loro vissi per diversi mesi operando perché quelle persone potessero trovare rifugio in Italia poiché, Costituzione alla mano, avevano il diritto di ricevere asilo politico in Italia.
Rientrato a Buenos Aires, ho vissuto alcuni anni durante la dittatura militare, instauratasi con il golpe del 24 marzo 1976. Anche qui la Cia operò attraverso i generali guidati dal generale Jorge Rafael Videla per scalzare la fragile democrazia argentina, ma soprattutto per annientare un’intera generazione che a Buenos Aires, come in tutta il pianeta, scendeva in piazza per costruire un mondo diverso, un socialismo dal volto umano.
Qui la violenza, egualmente feroce, assunse forme più subdole, meno esibite, e nascoste con “l’invenzione” della “desaparicion” degli oppositori. Evidenti furono le complicità del governo italiano e della P2, della Chiesa Cattolica ufficiale che benediceva i torturatori e perfino l’imbarazzante silenzio dei vertici del Partito Comunista Italiano, poiché Mosca aveva canali commerciali con il regime. Per questo motivo il genocidio di una generazione ebbe in Italia meno eco della repressione cilena, scarsa visibilità e solidarietà rispetto ai fatti del Cile.
Con l’inviato del Corriere della Sera Giangiacomo Foà, il rappresentante della CGIL Filippo Di Benedetto e pochissimi altri facemmo l’impossibile per salvare centinaia di perseguitati politici, di origine italiana e non, sottraendoli a morte certa.
Da diplomatico ho vissuto inoltre a Kabul la guerra civile ai tempi dell’invasione sovietica e in Nepal la guerra civile tra la monarchia assoluta e la guerriglia maoista, tuttavia mai avrei pensato di vivere giornate come quelle attuali, di profonda angoscia osservando l’umanità sul baratro di una guerra atomica mondiale.
Penso che, oltre ad una dimensione politica, fondamentale, ma non sufficiente, vi sia una questione culturale ed individuale.
Antidoto alla cultura della guerra, che permea da millenni, la civiltà occidentale è l’empatia, che ci lega l’un l’altro a formare caleidoscopie tra di noi, bestie umane, e tra noi bestie umane e le altre bestie e l’ambiente. Forse è questo che bisogna cercarsi dentro, scarnificandosi se necessario nella ricerca, perché è oltre le parole, nel profondo, che giace, primo vero tesoro, la fonte dell’empatia
Uccidere è il suo contrario, che pratichiamo continuamente. L’umanità l’uccidiamo ogni giorno; è già stata uccisa. Rischia adesso la nuda vita umana, questa nuova pandemia che tende all’appropriazione e distruzione di qualunque forma di vita e risorsa sulla terra.
Dove sono l’intelligenza collettiva, il senso comune, l’ordine in alternativa al caos? Ciò che ha dato la spinta per la parola, per non mangiare chi giace sconfitto ai tuoi piedi, dove sono creatività e giustizia? Sarà mai possibile uscire da questa valle di lacrime, che abbiamo trasformato in valle della morte?
Dobbiamo continuare a far finta di niente, magari a cantare l’Inno alla gioia, mentre ammazziamo o lasciamo ammazzare chi ci sta intorno?
Bisognerebbe dipingerli, gli orrori della guerra, come ha fatto Goya a suo tempo, per farli vedere a tutti, per farci spalancare gli occhi di fronte alla crudeltà che noi uomini siamo capaci di praticare e tenerla ben presente quando la guerra è alle porte, come oggi, A. D. 2024, intorno a noi in Europa: Ucraina e Medio Oriente.
Non posso evitare di pensare, che siamo proprio noi, uomini occidentali, che di valori, democrazia e diritti ci riempiamo la bocca, più di ogni altro nostro simile a provocare invasioni e scatenare le guerre. Oggi, come nel secolo scorso, come dai tempi delle Crociate.
Ho l’impressione che nella società occidentale ci siano oggi di nuovo forze profonde, nel capitale, nella finanza, nella politica, in quel mondo ristretto che alla fin fine chiamiamo potere che convergono sull’opportunità della guerra.
Posso capire la lotta armata contro un invasore o una dittatura, ma non arrivo a capire come, al di fuori di simili ipotesi, possano i media, più o meno social, arrivare a tradurre questa convergenza elitaria in accettazione maggioritaria da parte della popolazione, che è poi quella che della guerra sosterrà il costo in termini di sacrifici, se non in termini di vero e proprio pericolo, perché le guerre l’Occidente le fa da lontano, con una tecnologia che uccide senza macchiarci le mani di sangue, come in un videogame, o per procura. Così è almeno oggi, ma quando si intraprende una guerra, per quanto si sia sicuri della propria forza, non si sanno le svolte, gli effetti boomerang, che potrebbero intervenire.
E comunque la guerra d’aggressione va in tutti i casi evitata, al di là dei risultati, per le morti e le distruzioni, per le crudeltà che inevitabilmente comporta.
E’ per questo che non capisco come l’opinione pubblica di un Occidente avanzato possa nuovamente arrivare a sostenere la guerra e mi domando se i media, internet compresa, non stiano lavorando a convincere l’opinione pubblica occidentale ad accettare la violenza rivolta contro gli altri, come condizione necessaria per la nostra sopravvivenza, facendo passare il messaggio che comunque non ci si rivolterà contro. Temo che la guerra agli altri possa finire per venir accettata anche a difesa del nostro nudo interesse, del nostro benessere.
Intendiamoci, io penso che la politica possa bloccare sul nascere questo mostro spaventoso, ma so anche che, se non ci sono partiti che fanno questa scelta di priorità assoluta, se non c’è un’opinione pubblica maggioritaria capace di scendere in piazza per opporvisi, è tutto inutile, nessuno fermerà più la valanga.
Alla fin fine penso che l’empatia sia l’unica base possibile, che si debba andare oltre la regolamentazione dell’uso aggressivo della violenza fino a farlo diventare tabù, impensabile prima che illecito, come sarebbe oggi una coniugio tra madre e figlio.
So, ovviamente, che ne siamo ben lontani, che forse non ci arriveremo mai, se l’umanità continua ad avvitarsi nella violenza autodistruttiva, come un onnipotente Caino che finisca per ammazzare se stesso, ma penso sia quella la via, se mai ce n’è una.
So pure che chi è anziano oggi difficilmente vedrà l’alba del nuovo mondo, che personalmente credevo vicina ed inevitabile negli anni Settanta del secolo scorso, ma a noi, ad ogni modo, tocca non lasciar soli i giovani che tornano a riempire le piazze, riempiendo il cuore di speranza e che anche a noi oggi, con urgenza imposta dagli eventi, tocca fare ciò che possiamo fare, il nostro compito di esseri umani.
Enrico Calamai a una recente manifestazione per la pace