Sono rimasti in viaggio per un giorno intero a causa dei voli bloccati da Amman e Tel Aviv per via della guerra che ormai infuria in Libano come a Gaza. Un viaggio difficilissimo che li ha visti atterrare in aeroporti diversi per poi raggiungere finalmente l’Italia, tenendo fino all’ultima nell’incertezza gli organizzatori dell’iniziativa, in primis Mao Valpiana. E infatti erano tutti visibilmente stanchissimi alla conferenza stampa di ieri mattina a Cascina Nascosta a Milano, e più ancora all’incontro del tardo pomeriggio nella sede delle Acli, pienissima di gente.

Si chiamano Sofia Orr e Daniel Mizrahi, obiettori di coscienza israeliani che fanno riferimento alla rete di sostegno Mesarvot di cui ci siamo occupati più volte su questa testata. Affiliata alla stessa rete c’è anche la palestinese Aisha Omar, mentre Tarteel Al-Junaidi fa parte di Community Peacemaker Teams. Ieri sera, dinnanzi a una platea attentissima, hanno raccontato le loro difficili storie di pacifismo, in un’area da sempre dilaniata dal conflitto e ormai irreparabilmente avvelenata dall’odio, dalla metodica costruzione del nemico, dal lavaggio del cervello che inizia da quando nasci e non ammette altro orizzonte che le armi. Tutti con l’elmetto dall’età di 18 anni per l’obbligatorio biennio di servizio militare senza il quale in Israele sei un paria, un parassita, un traditore, un nemico della tua stessa gente, nemico per l’intera collettività, portatore di un pensiero incompatibile con la stessa idea di patria e quindi da punire con la prigione.

E’ il caso della giovanissima Sofia Orr, che i lettori di questa testata hanno imparato a conoscere fin da quando, nel febbraio di quest’anno, è stata condannata una prima volta al carcere per essersi rifiutata di arruolarsi nell’IDF, una condanna che le è stata inflitta di nuovo quando ha confermato la sua scelta. In totale ha scontato 85 giorni di detenzione, fino a ottenere l’esenzione. “Non è stata una scelta improvvisa, ma una consapevolezza maturata fin da quando avevo quindici anni. E posso considerarmi fortunata perché ho una famiglia che mi ha sempre sostenuto, dalla quale non ho ricevuto alcuna pressione, che anzi ha condiviso la mia scelta con tutte le difficili conseguenze, anche di fronte all’ostracismo generale quando il mio caso è uscito dall’invisibilità anche sulle testate internazionali, mentre per parecchi miei coetanei che sarebbero d’accordo con me la situazione è ben diversa e di grande sofferenza” ha raccontato, descrivendo la pesantissima pressione psicologica cui tutti si trovano soggetti nel sistema educativo israeliano, fin dalla più tenera età. “Per me è sempre stato chiarissimo che non c’è proprio niente da vincere con la guerra, mentre tutti possiamo vincere se scegliamo la pace” ha poi aggiunto tra gli applausi. E ha concluso con l’osservazione circa la possibilità che noi da lontano possiamo avere “di vedere tutto quello che succede in tempo reale, e però rendersi conto di persona è diverso: semmai qualcuno di voi volesse venire a vedere cosa succede dove viviamo noi, sarà una cosa importante non solo per lui, perché non potrà fare a meno di raccontare e condividere, e forse gettare qualche seme di cambiamento”.

Ben diverso il caso di Daniel Mizrahi, approdato nella Palestina occupata quando era adolescente nell’ambito di un programma di ‘inserimento in Terra Santa’ per ebrei residenti in America Latina, insomma aspiranti coloni. Cresciuto in un contesto di perenne e ’naturale’ tensione, ha poi frequentato l’università a Gerusalemme e piano piano ha preso coscienza della realtà di apartheid e negazione dei più elementari diritti, connessi con gli insediamenti di tante famiglie come la sua nei territori occupati, e quando è arrivato la chiamata al servizio militare ha deciso di rifiutare. Anche per lui c’è stata la prigione, 50 giorni. “So bene che il carcere che ho conosciuto io non è niente, in confronto a quello che devono subire i prigionieri palestinesi, ma anche per me ci sono stati dei momenti duri, per esempio quando sono stato convocato dalla direzione del mio reparto per avvisarmi che se avessi continuato a esprimere liberamente i miei sentimenti antimilitaristi con i miei compagni di cella, che non erano obiettori di coscienza ma detenuti comuni, avrei rischiato la cella d’isolamento… E comunque anche dopo aver scontato il periodo di detenzione la libertà non è mai tornata: per esempio nel mio ambiente di lavoro evito accuratamente di dire come la penso, la pressione psicologica all’interno della società israeliana anche tra persone della mia età è fortissima. La narrazione di ‘sicurezza a qualsiasi costo’ di cui tutti si accontentano è troppo pervasiva, ed è difficile far capire quanto è lo stesso regime di oppressione che infliggiamo ai nostri vicini a renderli pericolosi nemici.”

E poi c’è Aisha Omar, anche lei volontaria di Mesarvot benché palestinese, nata e cresciuta nei territori occupati nel 1948, imbevuta fin da prima di nascere di quel risentimento che è naturalmente diventato dominante nel mondo arabo. L’impegno di volontariato all’interno di Mesarvot è iniziato due anni fa “quando la vita mi ha permesso di scoprire che non proprio tutti gli israeliani sono quei mostri in divisa che da 75 anni opprimono e tengono segregata la Palestina e che anzi parecchi di loro sognerebbero tutt’altro e sarebbero aperti a quel reciproco riconoscimento nel dolore che potrebbe inaugurare un quanto mai necessario processo di pace…” Un lavoro di intermediazione, traduzione, accompagnamento, tessitura di relazioni che già era difficile due anni fa e che l’aggravarsi del conflitto ha reso ancor più complicato. “Spesso m sento una mosca bianca, tacciata di disfattismo dai miei amici più militanti, ma non bisogna perdere la speranza nelle possibilità di riconciliazione; ora sono ancora più convinta dell’importanza di connettere in qualche modo le due parti del conflitto…”.

E infine eccoci a Tarteel Al-Junaidi, nativa di Hebron, “un posto praticamente circondato dai check points, ovunque ti muovi vieni bloccato”. Dal 2019 è anche lei è attivista per i diritti umani con un’organizzazione ’sorella’ di Mesarvot che si chiama Community Peacemaker Team. “Per me è un privilegio essere qui oggi, mi sento quasi in colpa per questo privilegio, se penso a tanti miei coetanei che magari non ci sono più, ai tanti bambini, donne che non ci sono più… Ma contribuire a questo momento d’incontro è così importante: capire che ciascuno di noi ha un ruolo da svolgere nel perseguire la pace… e il vostro ruolo non è meno fondamentale del nostro, presso la vostra opinione pubblica, presso chi vi governa, presso chi vi vive accanto… Riuscire a pulire i nostri cuori, ripensare insieme alla pace, sapere che è possibile, è già agire il cambiamento ed è ciò di cui abbiamo bisogno”.

Sostenuto da un bel po’ di realtà associative, questo tour italiano di Sofia e Daniel, obiettori di coscienza israeliani e delle pacifiste palestinesi Tarteel e Aisha è stato concepito anche come un’opportunità di raccolta fondi sul fronte delle spese legali soprattutto, e proseguirà domani per Verona, per poi toccare Bologna (il 19 ottobre con una puntata ai luoghi della strage di Marzabotto), Parma e Reggio Emilia (il 20 ottobre), poi Firenze (21 e 22 ottobre), naturalmente Roma, con un nutrito programma di incontri istituzionali (23, 24 e 25 ottobre), per concludersi a Bari il 26 ottobre, per la grande mobilitazione nazionale contro la guerra.

Tutti i dettagli di programma si trovano a questo link, mentre sulla pagina Facebook del Movimento Nonviolento sarà possibile seguire le dirette di tutte le iniziative.

Qui la diretta dell’incontro di ieri sera presso la sede Acli di Milano:

https://www.facebook.com/MarzioGiovanniMarzorati/videos/3915325148751371

Da sinistra a destra Tarteel Al-Junaidi, Sofia Orr, Daniel Mizrahi e Aisha Omar