Continuiamo a raccontare la storia di Suliman e Fatima e della loro lunga fuga da Sudan ed Etiopia. Ecco i link agli articoli precedenti:

https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/

Sono dodici giorni che non ho notizie di Suliman. L’ultima comunicazione che gli ho dato deve averlo molto abbattuto: mi aveva chiesto di ricercare sul mio cellulare le foto, da lui inviatemi mesi fa, dei certificati medici di Fatima attestanti il suo disturbo particolare, la malattia auto-immune chiamata “Lupus”, certificati indispensabili per ottenere l’espatrio.

Andiamo con ordine: alcune settimane fa – o credo si tratti ormai di più di un mese- Suliman e Fatima avevano fatto domanda all’ambasciata egiziana di Port Sudan per poter entrare in Egitto dovendo lasciare il Sudan per motivi di salute (avevano infatti rinunciato ad avanzare la richiesta di asilo politico perché l’Egitto aveva dichiarato chiusa l’accoglienza dei profughi sudanesi avendone -diceva- ricevuti già un numero molto elevato). E motivi di salute ne avevano entrambi, e molto seri. Dopo un tempo più lungo del previsto era arrivata la risposta dell’Ambasciata: positiva soltanto per Fatima. In quanto a Suliman, “il suo trattamento è disponibile in Sudan”, quindi niente visto per l’espatrio. Sì, penso io, di sicuro negli ospedali sudanesi (tutti a pagamento, tranne quelli di Emergency) si sarebbe potuto fare un intervento alla prostata ma … un anno e cinque mesi fa; ora sicuramente sarebbe impossibile. Comunque loro trovano un’altra via: fanno la domanda soltanto per lei, con lui come accompagnatore.

E’ solo a questo punto che l’ambasciata egiziana richiede loro i test relativi al disturbo di Fatima e io ricevo il messaggio in cui Suliman mi chiede di cercare i certificati medici da portare all’ambasciata. Leggo e penso al mio telefono che nemmeno un mese fa mi ha lasciato definitivamente (“morto, guasto di sistema” è quello che hanno detto), portandosi via tutte le foto, compresi i preziosi documenti che darebbero loro il via libero per l’espatrio. Veramente da qualche giorno si è affacciato un filo di speranza: sembra ci siano a Roma due bravissimi tecnici capaci di far rivivere cellulari che sembrano del tutto morti. Proverò al più presto questa strada.

Nel frattempo mi sale un moto di indignazione e rabbia: come puoi chiedere certificati e fogli di carta, a chi ha attraversato chilometri passando a fianco e dentro alla guerra, a chi da 17 mesi vive accampato o in fuga, in situazioni sempre precarie e disagevoli? E Suliman e Fatima sono soltanto due persone su dieci milioni di rifugiati causati dalla guerra scoppiata in Sudan nell’aprile del 2023, “la guerra più orribile oggi in atto in Africa” come dice Alex Zanotelli (1), che da anni si batte per rompere il muro di indifferenza con cui l’Italia e l’Europa si pongono nei confronti dei drammi africani. Per allargare lo sguardo: Sahara occidentale, Sud Sudan, Sahel, Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia, Mozambico – così come lui stesso li elenca. E l’Italia con il governo Meloni va lanciando un cosiddetto piano Mattei che – al di là delle roboanti parole – sembra muoversi ancora in un’ottica colonialista. Invece, come ci ricorda Zanotelli nell’articolo citato, dovrebbe innanzitutto muoversi nell’ottica della “riparazione” verso le nostre ex colonie – Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia – tutte oggi devastate da guerre e da lacerazioni che sembrano insanabili, per i danni e per i massacri che il regime fascista ha compiuto in quei territori, su quella gente. Ma il governo italiano ahimè non ripara, bensì continua a fare danni: fermare i migranti (una delle sue occupazioni principali da quando si è insediato) infatti non significa interrompere il calvario dei loro disperati viaggi verso una qualche salvezza, ma al contrario prolungarli amplificandone le sofferenze, quando non si tratta di procurare loro la morte – per annegamento nel Mediterraneo, per disidratazione nel deserto, per le torture nei lager libici.

Continuando a leggere l’articolo citato scopro che nell’agosto del 2016 (governo Renzi) l’Italia aveva firmato con il Sudan il Memorandum di Khartoum. In che consisteva? “Voi ci bloccate i migranti; noi vi diamo tanti soldi”. E non è tutto: nell’agosto del 2022 (governo Draghi), in seguito a un accordo avvenuto nel gennaio dello stesso anno (sempre governo Draghi), una squadra speciale di militari italiani si è recata in Sudan con il preciso scopo di “addestrare i guerriglieri Janjaweed per boccare i migranti” (2). La storia del Sudan da vent’anni a questa parte ci insegna che i Janjaweed, ora parte delle milizie del SRF, si sono sempre distinti per ferocia e crudeltà. Bisogna forse addestrarli a essere ancora più feroci e crudeli?

Penso alla pacatezza, alla concreta sapienza e alla fattiva generosità che hanno sempre caratterizzato il mio amico Suliman; alla tenacia che in questi lunghi, difficilissimi mesi ho visto in lui e in Fatima; ai visi sorridenti e alla cordialità disponibile di tanti sudanesi conosciuti a Roma, popolo nella diaspora che non vuole dimenticare neanche per un momento i fratelli e le sorelle ancora laggiù nelle difficoltà. Penso tutto questo e capisco che ogni guerra, ogni sopraffazione, ogni violenza sono il segno di una rottura della convivenza nella pace, sono l’avvio di una ferita che non si sa per quanto tempo continuerà a sanguinare.

Note

1) Alex Zanotelli, L’indifferenza del mondo sulla guerra in Sudan”, Il Manifesto, 11/9/2024

2) Alex Zanotelli, articolo citato. L’articolo riprende a sua volta il giornalista Albertizzi in “Africa Express”.