La pubblicazione del decreto contenente le “Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica”, lo scorso 7 settembre conferma, e in qualche caso aggrava, le preoccupazioni suscitate dalle anticipazioni dello stesso ministro Valditara, e dal parere del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che il ministro in buona parte ha ritenuto di non accogliere. Un rifiuto che riguarda anche alcuni rilievi tecnici, ad esempio sulla confusione tra finalità e obiettivi, tra contenuti e competenze: “approfondire il concetto di Patria” e “Riconoscere il valore dell’impresa e dell’iniziativa privata” competenze non sono, come ha rilevato il CSPI, ed è quantomeno problematica questa confusione terminologica e concettuale in un testo ministeriale. Così come è significativa l’assenza di una valutazione delle esperienze scolastiche attuate nei primi tre anni di questa rinnovata disciplina, dalle quali il ministro avrebbe potuto trarre utili indicazioni: se, come il ministro afferma nel decreto, “la facoltà di modifica completa rientra nelle prerogative dell’Amministrazione”, è altrettanto vero che, proprio in nome di quel personalismo cui il ministro dichiara di ispirarsi, lo Stato è tenuto a rivolgersi al cittadino e alle sue manifestazioni, prestando ascolto e attenzione a quanto avviene nelle scuole.
Le Linee Guida dovrebbero offrire “una cornice efficace entro la quale poter inquadrare temi e obiettivi di apprendimento”: ma questa cornice diventa una strozzatura nella immediata delimitazione di questi obiettivi al “sentimento di appartenenza” che deriva dal nascere e vivere “in un paese chiamato Italia”. La stessa esperienze del mondo e del sé del bambino viene ristretta a questo contesto geografico, appiattendo la ricchissima esperienza della formazione del sé di cui si occupano una pluralità di discipline e saperi coinvolti in questa materia trasversale.
Ma qui incontriamo una seconda, più seria strozzatura: la reinterpretazione in chiave unicamente personalistica della Costituzione, cui viene correlata una rilettura degli artt. 41-42 che vede solo l’iniziativa privata e, di fatto, l’individualismo possessivo, tagliando via i limiti all’iniziativa privata, primi fra tutti l’utilità e la funzione sociale. Che nella Costituzione il termine “persona” rinvii alla dottrina personalistica, di cui erano portatori i cosiddetti “professorini” del mondo cattolico, è un’ovvietà; andrebbe piuttosto ricordato che il personalismo era stato, nelle ACLI e nella FUCI, una dottrina insegnata nascostamente in chiave di opposizione allo Stato totalitario che si arrogava il diritto di stabilire cosa è umano e spirituale. Ma la Costituzione nomina anche il lavoratore e il cittadino, che fanno segno alla presenza, accanto al personalismo, del marxismo e del pensiero liberal-democratico, dando vita al ben noto “compromesso costituzionale”. Il problema non è solo quello, rilevante, di una corretta lettura della Carta Costituzionale, ma di cosa consegue dall’appiattire l’orizzonte di senso dell’Educazione Civica su una scuola filosofica del secolo scorso. Che la persona umana sia il “soggetto fondamentale della storia”, al di là dell’involontaria pretesa di voler concludere una questione che si dipana da Agostino ad Heidegger, passando per Hegel e Marx, significa mettere un cappello umanistico-filosofico sui saperi, che sono tenuti ad acquattarsi ai piedi del personalismo, svolgendo un ruolo ancillare. Quest’affermazione, da un punto di vista evoluzionistico, piuttosto che dalla visione del mondo che viene costruita dalla fisica contemporanea, o dal contributo della paleontologia alla scoperta della costruzione dell’umano, semplicemente non ha senso, perché presuppone uno scopo della storia e un soggetto centrale inerente a questo scopo incompatibili con lo sviluppo dei saperi dell’ultimo secolo (compresa la filosofia), e ripropone non solo la separazione, ma anche una gerarchia di senso fra saperi umanistici e scientifici. Altrettanto problematico è l’individualismo appropriativo che discende da questa lettura parziale del personalismo; le Linee guida, affermando che “la responsabilità individuale non può essere sostituita dalla responsabilità sociale”, sembrano arrogarsi il diritto di affermare dove passi il punto di equilibrio fra le due responsabilità: il che non solo non è costituzionalmente corretto (come ha rilevato il CSPI), ma prefigura uno Stato Etico che demanda alla scuola il compito di trasmettere i valori etici, politici ed economici determinati dallo Stato, piuttosto che fornire gli strumenti attraverso i quali ciascuno può darsi una propria scala di valori. Il ruolo delle discipline scientifiche, che nel riferimento ai 17 obiettivi dell’Agenda 2030 trovavano ampie possibilità di interazione didattica, è posto al servizio dell’iniziativa economica privata e della dottrina della crescita economica – acriticamente affermata –, mentre passano in secondo piano i temi ambientali. Preoccupa che l’espressione “cambiamento climatico” scompaia dalle competenze per la scuola secondaria, mentre di “riscaldamento” non c’è menzione; quanto all’Agenda 2030, è relegata in una nota, a sua volta ridefinita dalla focalizzazione su un solo obiettivo: un potenziale assist ai negazionisti del riscaldamento globale. Lo stesso orizzonte contemporaneo di policrisi – economica, pandemica, ecologica, politica, migratoria – nel quale si svolge la vita reale è assente, a partire dalla stessa parola “crisi”. Cancellare una parola non significa cancellare ciò cui la parola fa segno: ma può significare omettere, o sminuire, quanto su questa parola – dalla crisi ecologica alla crisi pandemica – nelle scuole italiane è stato prodotto in questi anni. Sta alle soggettività interne al mondo della scuola riaprire e ampliare, con le proprie prassi non solo didattiche, quella “cornice di senso” ridotta a una strettoia disciplinare.