Continuiamo a raccontare la storia di Suliman e Fatima e della loro lunga fuga da Sudan ed Etiopia. Ecco i link agli articoli precedenti:

https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/

https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/

https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/

https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/

La notizia buona che pensavo di avergli dato non è per niente buona – scopro oggi parlando al telefono con Suliman. Pochi giorni fa qualcuno mi aveva segnalato un articoletto riguardante il Darfur sull’Osservatore Romano: diceva che è di prossima apertura il valico di Adré (fra il Ciad e il Sudan, dalla parte del Darfur). Sembra che il WFP (Programma Alimentare Mondiale) sia riuscito ad ottenere dopo 6 mesi di chiusura la riapertura del suddetto valico attraverso cui potranno entrare aiuti alimentari per la popolazione del Darfur, da mesi sotto attacco se non direttamente sotto assedio da parte delle Rapid Support Forces. Il governo sudanese aveva chiuso quel passaggio per timore che da lì potessero passare armi e droga destinate alla parte avversa (le Rapid Support Forces, appunto, i Janjaweed).

Questo diceva l’articolista dell’Osservatore. Suliman invece mi ha spiegato perché non è affatto una buona notizia: il Darfur purtroppo è al momento in mano a questi famigerati Janjaweed e tutto ciò che passerà da quel varco andrà a loro -armi e droghe comprese. Mi ha ricordato che la popolazione del Darfur non c’è praticamente più; sono scappati tutti, per lo più nei campi profughi del confinante Ciad. La cosa più logica sarebbe far entrare gli aiuti internazionali da Port Sudan, poi con le “macchine grandi” dell’Onu mandarli nel Darfur e nelle altre zone dove gli aiuti alimentari sono più necessari. Entrare da Port Sudan – mi spiega Suliman – significa poter arrivare in Sudan via mare e ciò è una facilitazione; nell’altro caso, quello che prevede di entrare al valico di Adré, la nave deve approdare in Camerun e poi via terra si devono attraversare 3000 Km. per arrivare al confine con il Sudan, cioè a quel valico dove sono “tutti Janjaweed”. E l’arrivo di armi e di droga – che loro commerciano – è a quel punto certo. Per questo, ribadisce Suliman, “la parte del Ciad dove c’è Adré non è buona: non c’è governo sudanese, non c’è popolo”.

Mi chiedo: ma l’Onu queste cose non dovrebbe saperle? E perché mai il governo sudanese avrebbe autorizzato la riapertura di quel passaggio invece di imporre all’Onu un percorso diverso ed efficace? Sono confusa, vorrei fare altre domande, ma ormai la nostra comunicazione telefonica è finita e oltretutto non è mai una buona comunicazione, si fatica sempre un po’ a sentirsi – oltre alle difficoltà della lingua italiana per Suliman. In questi giorni poi si aggiunge anche un altro fatto: il mio amico non è stato bene ed è dovuto andare all’ospedale. Mi ha raccontato che stavano tutti dormendo fuori per la strada (come fanno tutte le notti per soffrire meno il caldo) quando improvvisamente è cambiato il tempo, con forte pioggia, vortici di polvere, abbassamento della temperatura e qualcosa di critico – che non ho ben capito – è avvenuto nel suo corpo. All’ospedale gli hanno fatto dei trattamenti e – scrive in un messaggio – “il medico ha deciso per me quattro percorsi nutrizionali”: alla base c’è sempre la scarsa, forse scarsissima, forse certi giorni ‘nulla’ nutrizione, per cui i corpi di queste persone coraggiose che attraversano Paesi e superano confini sono deboli, a volte sfiniti; la forza sta nei nervi, nella volontà. Io credo che ognuno-ognuna di loro stia compiendo qualcosa di eroico.

Domenica scorsa Fatima e Suliman hanno portato tutta la loro documentazione, compresa quella medica, all’Ambasciata d’Egitto e avranno la risposta giovedì: l’Ambasciata è aperta solo due giorni a settimana,  domenica e giovedì. Per fortuna la pioggia ha portato una temperatura meno bollente: da 50 gradi si è passati a 40. La casa che li ospita però rivela sempre più disagi: marito e moglie non possono incontrarsi all’interno, devono telefonarsi e darsi appuntamento fuori e questo vale anche per il ‘buongiorno’ e la ‘buonanotte’, che si danno per telefono. L’elettricità un giorno c’è e quello dopo no; a volte manca anche per 24 ore di seguito, con tutto quello che comporta in una casa, per di più affollata. Gli ospiti, infatti, aumentano in continuazione:

“Questa casa come Caritas: ogni giorno vengono persone nuove,” racconta Suliman. La notte, come detto sopra, dormono fuori, per strada, stendendo i loro tappetini. È una strada, la loro, dove non passano tante macchine. Cellulari e soldi restano in casa, ben chiusi a chiave. “Dormire fuori in Sudan è accettato come una cosa normale” mi spiega. Ed io penso a una passeggiata serale che facemmo (noi gruppo Arci Ragazzi e Salam ragazzi dell’Olivo) sui tetti e sulle terrazze di Gerusalemme: da lì venni a conoscenza dell’abitudine di molti popoli di climi caldi di dormire all’aperto, in terrazza appunto. E dove non c’è una terrazza rimane la strada. Cerco di avere dal mio amico qualche notizia sulla città: Port Sudan – mi dice – è piccola, ma è comunque la seconda città del Sudan dopo Khartoum; è una città moderna, fondata dagli inglesi a inizio 1900, e subito diventata porto importante di esportazione di prodotti provenienti dalla valle del Nilo, a cui venne immediatamente collegata.

Parliamo poi dei sudanesi rifugiatisi in Etiopia, sorte che era stata anche la loro fino a pochi mesi fa: ha saputo che da 10.000 rifugiati che erano nel campo di Kumer (vicino a Gondar, in Etiopia occidentale) sono diventati ora che si sono spostati a Istet (ad appena 30 Km dal confine sudanese) appena 2.050; gli altri sono scappati. Anche la comunità internazionale – sottolinea Suliman – ha detto che “Etiopia non bene con i rifugiati”. Gli chiedo del bagno nel Mar Rosso che volevano fare tutti insieme lì da Port Sudan: niente bagno, non era così facile raggiungere il mare da casa loro, sarebbe servita una macchina.

Infine racconto a Suliman di aver letto in un breve articolo del Fatto Quotidiano di un paio di settimane fa che gli Emirati Arabi sostengono Dagalo, il capo delle Rapid Support Forces. E sì, lui lo sapeva bene: Emirati, Repubblica Centrafricana, Ciad, Libia, tutti sostengono “i ribelli” (evidenzio questa espressione perché suona particolarmente inadatta, eppure viene usata). Gli Emirati – dice ancora Suliman – danno aerei alle RSF: circa 15 giorni fa è stato trovato in Darfur un aereo precipitato e bruciato ed era un aereo fabbricato negli Emirati. Dice l’articolo sopra citato: “Era nota da tempo una rete di rotte di rifornimento che attraverso Libia, Ciad, Uganda e Repubblica Centrafricana fornisce alle Rsf ciò di cui hanno bisogno”. E su Mohammed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, “massacratore nel Darfur negli anni Duemila e capo delle Rapid Support Forces”: “Dagalo, che controlla le miniere d’oro nel nord, è un cliente, ma soprattutto un amico per gli Emirati. Anche lui, come tutti i satrapi africani, ha un conto miliardario off shore a Dubai” (1). Io penso a Fatima e a tutte le donne della casa dei darfuriani a Port Sudan: chissà se sono riuscite a tenersi l’ultimo orecchino?

Note

  • Fabio Scuto, “Sudan. Emirati con il tagliagole Dagalo: l’Onu ora ha le prove”, “Il fatto Quotidiano”, 12 /8/2024.