Nel novembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso circa un mese in Senegal, focalizzando l’attenzione sui “ritornanti”, ossia coloro che dopo anni trascorsi in Italia (o in Europa) hanno deciso (o sono stati costretti) di tornare a casa. Condivido un estratto di quel racconto corale, fatto di speranze, torture, dubbi. 

Nell’afa di mezzogiorno si fa largo un falegname di nome Salimov, alla ricerca di attrezzi per ultimare una porta ricamata. A Ziguinchor pare impossibile trovare un giovane che non abbia tentato almeno una volta la via per l’Europa. “La mia è stata una scelta personale ma spesso sono proprio le famiglie a insistere che tu parta. Racimolano soldi, risparmiano anni pur di spingerti verso morte (quasi) certa, nella speranza che tu possa diventare un aggancio per la ricchezza. Conosco famiglie che si procurano mappe, pianificano le tappe del viaggio, stringono agganci coi passeur, credendo nel fatto che un parente in Europa possa davvero togliere tutti dalla miseria. È la nostra ambizione, il vecchio continente, ma i libici non ce lo permettono.

Molti dei migranti che vengono rinchiusi nei centri di detenzione sono rifugiati (che secondo le leggi internazionali avrebbero diritto d’asilo poiché sono stati costretti a lasciare il loro Paese) ma vivono nelle stesse condizioni dei profughi arrivati illegalmente. Secondo me la rotta terrestre è più pericolosa di quella marittima: devi mettere in conto i furti, le umiliazioni, i ricatti.” racconta il carpentiere, che non è mai arrivato così tanto a nord da toccare il mare, sebbene abbia tentato due volte la traversata: la prima volta da Algeri, la seconda da Tripoli. Al terzo tentativo Salimov si è messo l’anima in pace: percorrendo a ritroso il percorso iniziatico in autostop, è riuscito nell’arco di pochi mesi a riabbracciare il padre. Con grande discrezione l’Europa attira a sé la gioventù del “sottosuolo”, rifornisce il mercato del lavoro di manodopera flessibile e vulnerabile, assicurandosi nuovi consumatori tentati dalle promosse d’abbondanza, dalle luci fioche della globalizzazione.

È un diluvio di pompelmi rosa il campo arato che circonda la casetta di Osman, capo-villaggio del distretto est del paese. Dopo aver ricevuto il video delle torture inflitte al figlio, delle urla e delle richieste d’aiuto, l’anziano ha pagato immediatamente i gendarmi libici per liberare  e riportarlo in Casamance. “Il filmato mi è stato girato tramite uno smartphone – racconta Osman, coi piedi imbevuti nella sabbia bollente – Appeso a testa in giù e preso a calci c’era mio figlio. Si trovava a Bani Walid (centro di detenzione informale gestito dalle milizie libiche), conosciuto anche come la fabbrica delle torture. La prassi non consentiva sbagli né alternative: trovare i soldi per riscattare la sua vita. Non credevo fosse possibile, ma è successo. Stando ai racconti di mio figlio i migranti vengono colpiti con bastoni, calci di fucile, tubi di gomma, scariche elettriche. Tutte le donne che erano con loro sono state sistematicamente violentate dai guardiani della struttura.

La rotta ultimamente si è un poco spostata verso ovest, dove i nostri ragazzi hanno l’opportunità di lavorare come muratori in qualche cantiere del Sahara occidentale. Continuano a essere schiavi, nonostante le pressioni e le petizioni scialbe di qualche ONG. Gli alberi avvolgono le bestialità degli uomini come coperte candide. La sensazione è primordiale: l’abbraccio della foresta vergine. Le foglie di banano producono un suono lieve di carta sbatacchiata; Osman, questo mite sessantenne ferito nell’animo, intontito le fissa da minuti, come se non esistessi più. I giardini delle case spurgano conchiglie e fossili marini. Djerediaba, sulla via del ritorno, muove i passi verso casa.  

Litri di Bounouk (vino di palma) fanno assopire le stradine di Ziguinchor, cittadina fondata dai portoghesi come avamposto commerciale a cavallo del sedicesimo secolo. Sulle vetrate dell’ufficio amministrato di C.O.S.P.E una fila indiana di formiche trasporta molliche cadute dal paniere. “Non vogliamo combattere l’immigrazione ma affermare il diritto, lo scambio, la libertà di movimento, sensibilizzare sui rischi, far prevalere le vie legali. Puntiamo a far conoscere le opportunità qui presenti, a livello economico, educativo, di semplice stage occupazionale” sostiene Sara, operatrice dell’associazione. “Io che sono migrante da dieci anni non posso dire ai ragazzi di starsene a casa, ma posso impegnarmi nel dare loro un’immagine reale dell’Europa. Dei rischi ne sono al corrente, ma in pochi sanno come è realmente la vita lassù. Spessissimo si affidano a immagini virtuali caricate sui social. Immagini di circostanza, devianti, che rientrano nel circo odierno dell’apparire”.

È sufficiente scorrere il profilo Facebook di Zizù, conosciuto alla Diocesi di Tangeri, per smascherare l’estetica del disagio: pose altezzose e cappellini di traverso per camuffare la realtà asfissiante delle ronde xenofobe. All’imbrunire, di rimando alla testimonianza di Osman, intercetto Braima, trentacinque anni, commissario delegato per conto dell’IOM. “Nel giugno 2018, tramite il Consolato senegalese in Libia, ho preso parte a una missione (finanziata dall’IOM) mirata a monitorare la situazione dei migranti in transito e constatare la realtà dei fatti. Siamo rimasti sette giorni in Libia. Non è stato facile incontrare i nostri conterranei. Sei di loro sono stati arrestati mentre venivano alla riunione da noi organizzata, poiché l’unica maniera per ricevere notizie reali era agire clandestinamente, lontano dall’occhio vigile dei carcerieri. Abbiamo avuto conferma che i diritti umani dei sub-sahariani vengono metodicamente calpestati; è sufficiente non avere i documenti in regola per essere percossi e costretti ai lavori forzati. Di ottantasette senegalesi identificati solo uno di essi era convinto di rimanere in Libia, tutti gli altri volevano tornare di corsa a casa.

Nel centro di detenzione di Triq Al Sikka, lungo la vecchia ferrovia di Tripoli, ci hanno vietato l’ingresso. Non ci sono senegalesi qui, perché volete entrare? hanno detto le guardie armate. Dovevamo attenerci a un protocollo e non potevamo sforare. I migranti da noi incontrati si lamentavano maggiormente dell’impossibilità di accedere a educazione e lavoro, delle infrastrutture fatiscenti, delle botte o molestie ricevute inutilmente. In Maghreb non c’è libertà di circolazione per loro; passano anni o mesi in clandestinità, finché non trovano un barcone con il quale salpare. È notizia recente che un bombardamento aereo ha colpito un centro di detenzione per migranti a Tajoura, mietendo almeno quaranta morti e ottanta feriti. Le vittime provenivano da Sudan, Eritrea e Somalia. Tra bombe e militarizzazione dei confini, le traversate stanno diminuendo a vista d’occhio. Due dati sono certi: sono più quelli che tornano indietro che quelli che vanno in Europa. In più la censura è martellante, faziosa, dilagante: ci mostrano ciò che vogliono, quando vogliono. Compresi noi, funzionari privilegiati, possiamo solo immaginare quel che accade dentro quelle mura”. Braima succhia le ossa del pollo arrosto ordinato, come se stesse suonando un flauto traverso. Affonda nella sedia, desideroso di starsene in pace. Al centro di una rotatoria senza precedenze, un tamponamento autostradale è divenuto sagra di paese. 

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