Luglio 2024: a Gaza l’esercito israeliano ha scaricato l’inferno sui civili sfollati colpendoli dal cielo. Due date tra le tante: il 9 Luglio, nella scuola dell’Onu ad Al Awda, nella zona orientale dell’immenso campo profughi di Khan Yunis, mentre si svolgeva un’improvvisata partita di calcio, un missile provoca la morte e il ferimento di decine di persone, tra cui otto bambini. Lo stato maggiore israeliano sostiene che avevano come obiettivo un combattente di Hamas, ha promesso un’inchiesta.
Non è il primo attacco ad una scuola dell’Onu nella Striscia di Gaza: secondo l’UNRWA, più di 500 persone sono state uccise nelle scuole e in altri rifugi da essa gestiti a Gaza dallo scorso 7 ottobre.
Il 13 Luglio alla mattina, di nuovo, vengono sganciati missili sul campo profughi di Al Mawasi, sempre a Khan Yunis, provocando quaranta morti e il ferimento di oltre cento persone. Il campo era stato dichiarato sicuro dallo Stato maggiore di Israele, che aveva invitato la gente ad andarci.
Tutte queste persone sono state colpite, mentre erano a consumare un magro pasto con i figli, mentre dormivano, mentre erano intenti alle attività quotidiane, nella ricerca di cibo e acqua, mentre si intrattenevano in necessari momenti di distrazione da un incubo che nessuno sa quando potrà finire.
Il messaggio è chiaro: non c’è sicurezza per nessuno in nessun luogo, né nelle mosche, né nelle chiese, né nelle strutture dell’Onu, né negli ospedali.
La conta odierna di questi nove mesi di guerra è impressionante: 38.443 morti, 88.481 feriti di cui 16.054 bambini, oltre 70.000 dispersi, 500 medici e operatori sanitari uccisi, 620.000 minori che non hanno più potuto andare a scuola, 19.000 orfani.
L’organizzazione “Save The Children” ha raccolto dati sulla salute dei bambini a Gaza dal 2022, pubblicando vari rapporti nei quali esprime preoccupazione per la condizione dei minori che sono esposti a episodi estremamente traumatici, privati di qualsiasi mezzo per affrontare la situazione.
Jason Lee, direttore di Save the Children per i Territori palestinesi occupati, in una intervista pubblicata sul sito dell’organizzazione, denuncia che i bambini a Gaza “non hanno un luogo sicuro dove rifugiarsi, sono privati di qualsiasi senso di sicurezza o di routine, in migliaia sfollati dalle loro case. Anche gli operatori esperti, che a loro volta stanno affrontando una situazione personale ardua, hanno difficoltà ad aiutare i bambini a gestire le reazioni emotive travolgenti, tipiche dei giovani traumatizzati dalla violenza. Nelle condizioni attuali, a Gaza, i bambini manifestano tutta una serie di segni e sintomi di trauma, tra cui ansia, paura, preoccupazione per la propria sicurezza e per quella dei propri cari, incubi e ricordi inquietanti, insonnia, difficoltà a esprimere le proprie emozioni e allontanamento dai propri cari. Il trauma che dà origine a questi sintomi è continuo, inesorabile e si aggrava giorno dopo giorno”.
L’intervista prosegue sottolineando l’urgenza del cessate il fuoco: “Più volte abbiamo avvertito che il conflitto e il blocco avrebbero richiesto un tributo troppo alto alla salute mentale dei bambini. Più della metà dei genitori con cui abbiamo parlato ci ha riferito che i loro figli erano autolesionisti o avevano pensieri suicidi. Stiamo esaurendo le parole per lanciare l’allarme in termini sufficientemente forti o per spiegare l’entità della sofferenza dei più piccoli. Deve esserci un cessate il fuoco. Senza di esso, i bambini che non vengono uccisi vedranno completamente distrutte le loro ultime riserve di speranza e la fiducia di essere protetti. Ogni giorno di violenza significa più cicatrici mentali e fisiche che dureranno per tutta la vita. Senza un cessate il fuoco immediato, c’è il rischio molto concreto che la salute mentale dei minori venga spinta fino al punto di non ritorno“.
Mentre da Gennaio 2024 la Corte di giustizia dell’Aja prosegue con il processo per genocidio a carico del governo israeliano, mentre da più parti le organizzazioni umanitarie alzano gli appelli al cessate il fuoco, mentre delegazioni di parlamenti da molti paesi del mondo, tra cui anche l’Italia, fanno la spola al valico di Rafah, per chiedere di far passare gli aiuti alla popolazione palestinese, nessun governo europeo o extraeuropeo ferma Israele. Non cessano gli approvvigionamenti di armi, non vengono richiamati ambasciatori, non viene riconosciuto lo Stato della Palestina, come hanno fatto, uniche in Europa, la Spagna, l’Irlanda e la Norvegia.
Le diplomazie attendono che la popolazione di Gaza muoia sotto i bombardamenti, e a causa delle interruzioni di forniture di acqua, cibo ed energia elettrica, anche di fame, sete e mancanza delle cure necessarie.
Davanti a tanto scempio, sono necessari gesti concreti, anche attraverso lo strumento del boicottaggio. Ci sono molte ditte che sostengono l’esercito israeliano, produttrici di merci che sono apprezzate in Europa: con scelte mirate da parte dei consumatori è possibile segnalare la contrarietà a quanto sta avvenendo e questo genera un danno economico significativo, che costringe queste aziende a cambiare rotta. Si vedano le polemiche per la campagna pubblicitaria lanciata da Zara nell’Ottobre 2023, che, per promuovere la sua nuova linea di giacche, aveva utilizzato manichini avvolti da plastica o tessuti bianchi, drammaticamente simili ai sudari in cui sono avvolti i morti a Gaza prima della loro tumulazione. Zara ha ritirato la campagna, giustificandosi dicendo che era stata progettata nell’estate e che non era intenzione del marchio offendere le popolazioni in guerra.
E poi c’è il caso della Puma, che lo scorso dicembre ha scelto di non rinnovare il suo contratto di sponsorizzazione della nazionale di calcio israeliana. Il marchio sportivo ha negato che la decisione sia stata assunta in conseguenza del conflitto, tuttavia la decisione è stata salutata come un successo dai promotori delle campagne di boicottaggio commerciale.
La paura di perdere fatturato promuove scelte etiche.
Secondo quanto documenta la rete BDS, i marchi coinvolti direttamente o indirettamente nell’appoggio all’occupazione israeliana compongono una lunga lista, piena di prodotti che ogni giorno finiscono sulle nostre tavole e non solo. Eccone alcuni, ma rimando alla lettura dell’articolo citato per l’elenco completo.
CARREFOUR, multinazionale della grande distribuzione alimentare con sede in Francia, oltre ad aver aperto una franchising con aziende israeliane direttamente coinvolte nel progetto coloniale israeliano nel 2023, è accusata di essere nuovamente complice per aver donato migliaia di pacchi personali all’esercito israeliano.
McDonald’s, Domino’s Pizza, Pizza Hut e Papa John, hanno fatto generose donazioni all’esercito di Israele. La filiale di McDonalds israeliana ha dichiarato recentemente di aver regalato 100mila pasti all’esercito e ha inoltre dichiarato di offrire uno sconto del 50% per i soldati e le forze dell’ordine israeliane.
La multinazionale statunitense dell’informatica HP (Hewlett Packard) aiuta Israele a limitare gli spostamenti dei palestinesi fornendo un sistema di identificazione biometrico.
I cosmetici AHAVA hanno il loro sito di produzione in un insediamento israeliano illegale.
DANONE è una multinazionale francese di prodotti alimentari che detiene il 20% delle azioni dell’azienda alimentare israeliana Strauss Group, investendo nei territori occupati.
AXA investe in banche israeliane che finanziano il furto di terre e risorse naturali palestinesi. SIEMENS è complice attiva nella proliferazione delle colonie israeliane in territorio palestinese attraverso la costruzione del progetto dell’Interconnettore EuroAsia.
STARBUCKS sponsorizza anche raccolte di fondi per Israele.
COCA-COLA sostiene lo stato di Israele dal 1966.
La società svizzera NESTLÈ possiede il 50,1% dei capitali della catena alimentare Osem israeliana.
LEVI STRAUSS JEANS E CELIO finanziano le nuove colonie in Palestina ma anche le scuole degli estremisti religiosi nel mondo.
NOKIA commercia attivamente con lo Stato di Israele, dove ha un centro di ricerca.
CATERPILLAR contribuisce alla distruzione delle case in Palestina con i suoi bulldozer giganti.
Scelte etiche e piccoli sacrifici possono produrre significativi risultati, per salvare vite e, con queste vite, anche noi stessi.
Fulvia Fabbri
Milad Jubran Basir