Dopo la fuga dal campo profughi di Kumer, in Etiopia e l’arrivo a Port Sudan, continua l’odissea di Suliman e Fatima. La violenza aumenta in Sudan e feroci milizie si stanno diffondendo anche in altri Paesi africani.

Nell’appartamento di Port Sudan dove un gruppo di sudanesi del Darfur, fuggiti dalle loro città e dai loro villaggi, sono stati ospitati da un concittadino (“uno ricco”), la convivenza comincia a diventare difficile ora che anche il caldo è aumentato. “Oggi più di 50 gradi,” racconta Suliman per telefono (e mentre mi parla sta tornando con due autobus dall’ufficio dell’Ambasciata dove si è incontrato con il funzionario Domenico, suo amico) e “anche l’acqua sale” (come dire: caldo-umido). “La casa è come un forno,” conclude. Nessuna refrigerazione né areazione – né in casa né in questi autobus che va prendendo per attraversare la città.

La telefonata è molto disturbata, ma se ho capito bene c’è stato un giorno in cui la temperatura è arrivata a 60 gradi. E intanto si aspetta che l’Ambasciata rilasci il passaporto della moglie con il rinnovo e appena pronto si chiederà il visto per l’Egitto. Ci sono già 200.000 sudanesi arrivati in quel Paese e il governo egiziano non vuole più accoglierne (forse non c’è ancora una chiusura ufficiale, ma si teme che arrivi presto). Nel frattempo si cerca di procedere anche sul fronte medico: gli esami della prostata dicono che Suliman deve operarsi, ma lui esclude di farlo in Sudan (cosa che non sarebbe peraltro neanche possibile perché, dice, “non ci sono medici”). E l’Egitto non ti fa entrare se sei malato. Tutti problemi da affrontare a breve. Sempre tenendo anche stretti, dove è possibile, i contatti con i parenti rimasti nelle città di origine e in particolare nel Darfur, che in queste ultime settimane è di nuovo oggetto di attacchi da parte dei Janjaweed. Due giorni fa avevo ricevuto da Suliman stesso la notizia che El Fasher, capitale del Darfur settentrionale, era stata bombardata nella sua parte orientale ed erano morti più di 30 cittadini; ora mi dice che fra le vittime c’è il fratello di una loro convivente della casa di Port Sudan. Mi chiedo con che spirito si possa proseguire il proprio viaggio (forzato) di emigrazione, già molto impervio.

Il 23 luglio a Roma c’è stata una manifestazione di sudanesi: si sono dati appuntamento a Piazza dell’Esquilino per far sentire alla nostra pigra città la voce del loro popolo e quello che sta attraversando in questo momento. Ero andata sperando di chiarirmi le idee, soprattutto capire da che parte stanno i ‘rifugiati politici’, insomma qual è la parte giusta in cui collocarsi – contro le bombe e gli attacchi di terra, l’esercito di Burhan (capo di Stato de facto) e le milizie Rsf (Rapid Support Forces, Forze di Supporto Rapido) – e fra la lettura del volantino che distribuivano e alcuni, pochi, scambi che sono riuscita ad avere a voce capisco che la parte da appoggiare è secondo loro quella del governo (anche se il “governo è finito”, mi sento dire oggi da Suliman), insomma quella di Burhan, dell’esercito regolare. La gravità al momento sta negli stermini, atroci e ripetuti, opera delle Rsf, accentuata dal fatto che un ex ministro del governo di Burhan, Abdalla Hamdok (1), è passato ad appoggiare i Janjaweed e le Rsf portandosi dietro altri esponenti di quel governo.

In quella piazza dell’Esquilino mi colpisce il gruppo delle donne sudanesi che nonostante il gran caldo, con i loro abiti che le coprono integralmente, si presentano poco dopo l’inizio, un po’ alla spicciolata con i bambini e un po’ a gruppetti e sono tutte lì insieme, più o meno all’ombra di un grosso albero; una di loro riprende tutto in un video “per Tik Tok” (lo so perché a un certo punto mi si avvicina e mi chiede se anche io faccio le riprese per Tok Tok); i bambini bevono le aranciate nei cartoni e sventolano le bandierine del Sudan. Lo slogan che prevale è “Barra barra janjaweed” che vuol dire “Via via” e lo si alterna con canzoni di lotta sudanesi a cui tutti partecipano con entusiasmo, qualcuno anche danzando.

Nonostante la faticosissima acustica della telefonata chiedo lumi a Suliman sulla situazione delle forze in campo: mi dice che l’esercito governativo non ha praticamente più soldati e che Minny (un nome che conosco perché già ai tempi di Beshir era uno dei leader dell’opposizione al dittatore e ai suoi lacchè Janjaweed ) con la sua milizia “aiuta la gente”: cerca di difendere il popolo dagli attacchi feroci di questi ‘diavoli a cavallo’ (che da tempo ormai non procedono più a cavallo ma in lussuose automobili, dato che quello delle macchine -insieme al commercio dell’oro e ai prestiti al dettaglio – è stato uno dei settori economici con cui si sono arricchiti e resi autonomi dal potere centrale).

I Janjaweed si sono fatti conoscere ai tempi del lavoro sporco che il regime di Beshir commissionava loro in Darfur – attaccare le popolazioni africane, villaggio per villaggio, casa per casa, fattoria per fattoria – e a un certo punto si sono ‘messi in proprio’, hanno tagliato i fili e si sono staccati dal burattinaio. Dopo la caduta di Al Beshir nel 2019 hanno fatto parte della transizione, che ha visto Saf (Forze Armate Sudanesi) e Rsf (Forze di Supporto Rapido, il loro gruppo di appartenenza) negoziare per tentare di arrivare a un cambio di regime e poi eccole di nuovo come schegge impazzite a portare danni, morte, distruzione. E’, come sappiamo, dall’aprile del 2023 che le due fazioni sono entrate in guerra: le Rsf non accettavano di perdere le loro prerogative sciogliendo le proprie milizie per farle convergere nell’esercito sudanese.

Chiedo a Suliman quando dovrebbero essere i “colloqui di pace” di Ginevra di cui mi è arrivata notizia in un suo precedente messaggio. Risposta lapidaria: “Il 14 agosto, ma non ci posso credere”. La cosa che mi dice in modo meno lapidario invece è che i Janjaweed si stanno ormai diffondendo in vari Paesi dell’Africa – Ciad, Etiopia, Centro Africa, Mali, Niger, Libia. A guardarli uno per uno si tratta di Paesi già ‘allo sfascio’ per corruzione, povertà estrema, guerre, interventi pesanti di Paesi esteri per lo più occidentali. E’ come per l’Isis, come per Boko Haram: proliferano dove già il terreno è distrutto, là dove non c’è più niente da perdere. “E l’Egitto?” domando. “No, in Egitto no. L’Egitto è forte”.

Nota

  1. Abdalla Hamdock aveva avuto un ruolo importante nella fase della transizione seguita alla caduta di Beshir: era stato infatti nominato primo ministro (“preso a prestito dalle istituzioni finanziarie internazionali … e sostenuto dall’Occidente”, come scrive Mario Giro, nel suo articolo “Fame, profughi e una guerra infinita. Così il Sudan sprofonda nel caos”, pubblicato su “Domani” del 27/7/2024).