La stagione referendaria si apre col tentativo di cancellare l’Autonomia Differenziata, ma proseguirà con ogni probabilità con i referendum costituzionali su premierato e separazione delle carriere in magistratura.

È evidente che vi è un attacco alla nostra Costituzione da parte delle destre al potere, ma il male viene da lontano, e la sinistra “sinistrata” ne è complice ed anzi protagonista.

Non ci riferiamo tanto a questioni specifiche, pur molto gravi, come per esempio la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dalle sinistre, e che ha aperto la strada alla Autonomia Differenziata. Riteniamo, più in generale, che la classe politica italiana nel suo complesso, a partire dalla “seconda Repubblica”, e anzi ancor prima nel corso degli anni Ottanta, sia completamente venuta meno al compito storico che i padri e le madri costituenti le avevano assegnato scrivendo la nostra Carta fondamentale.

Nelle intenzioni originarie il potere legislativo e il potere esecutivo dovevano essere il luogo di ciò che il vecchio P.C.I. chiamava “la democrazia progressiva”: garanzia (ovvia) dei diritti civili e politici e affermazione di sempre nuovi e sempre più significativi diritti sociali. Sappiamo come è andata a finire.

Per la verità le attuali difficoltà sono anche dovute ad un limite originario. I Costituenti presi dall’ebrezza di un ottimismo populista, figlio della vittoria nella guerra partigiana, immaginavano il futuro come una marcia radiosa e lineare verso il realizzarsi del potere popolare. Che la storia potesse tornare indietro pareva impossibile.

Si propose, ad esempio, di mettere in Costituzione il sistema elettorale proporzionale, ma poi non se ne fece nulla, molto probabilmente (e paradossalmente) perché la cosa sembrava ovvia ed erano tutti d’accordo. (Non si mette in Costituzione che due più due fa quattro!).

Comunisti e socialisti inoltre attaccarono con violenza l’idea di una Corte costituzionale, ritenendo che in questo modo si volesse mettere un freno al parlamento, espressione della lunga marcia del popolo dentro le istituzioni. Gli altri partiti, invece, la difesero temendo che i comunisti andando al governo trasformassero l’Italia in un paese socialista. Lo so che si stenta a crederlo, ma questo era il clima del tempo!

In questo contesto nacque quell’art. 138 della nostra Carta che è l’unico (parere personale) che andrebbe modificato. Grazie ad esso per approvare una legge di revisione costituzionale basta la maggioranza assoluta dei voti di ciascuna Camera.

In pratica, a parte la possibilità del referendum, qualunque maggioranza parlamentare, in qualunque momento, può modificare la Costituzione. Errore! La Costituzione non si cambia, tranne che non intervenga un nuovo processo costituente, figlio di una nuova “rivoluzione”, o comunque di una forte cesura storica.

Al massimo, giusto per dare spazio a questioni universalmente accettate, si potrebbe modificare l’art.138, prevedendo che le leggi di revisione costituzionale debbano avere una maggioranza dei tre quarti degli aventi diritto di ciascun ramo del parlamento. (Si potrebbe pensare anche ai due terzi, ma solo con una legge rigorosamente proporzionale).

Ciò, naturalmente, non darebbe nessuna garanzia che la Carta non possa essere modificata nei fatti, o resa inattiva con operazioni più o meno “subdole” e “striscianti”.

Gli esiti dello scontro politico non possono essere decisi dalle norme costituzionali, ma le garanzie e gli indirizzi generali che la Carta prescrive andrebbero sempre rispettati.