Fa caldo ma casa mia è in ombra, sempre, e d’estate è un grande vantaggio.
Sono sdraiato sul letto e finalmente mi decido a scrivere.
Il 21 Luglio 2001 parto in macchina da Pejo che è notte e lascio nel bungalow mia moglie Francesca (ora ex moglie) e le mie figlie Irene di 9 anni e Maia di 4 anni.
É ancora notte.
Raggiungo Trento che non è ancora l’alba. Partono per Genova diversi pullman organizzati tra l’altro da Fiom, Arci e comitati locali.
Io ho prenotato sul pullman della federazione dì Rifondazione Comunista di Trento.
I pullman sono tutti pieni: ci sono state diverse rinunce, ma altri all’ultimo momento hanno deciso di partire, perché si deve.
C’è silenzio, assordante, ancora non sappiamo esattamente cosa sia successo il giorno prima, cioè ignoriamo i particolari dell’esecuzione a freddo di un ragazzo come noi che, reagendo coraggiosamente, ha salvato la vita di un compagno: non c’è amore più grande che donare la vita per un fratello, vero?
Le notizie che il potere diffonde inizialmente parlano di un teppista facinoroso, un basco forse, un famigerato black block, che stava assaltando carabinieri indifesi.
Poi scopriremo che furono le forze dell’ordine ad assaltare a freddo un corteo autorizzato.
Amo le persone che in circostanze estreme riescono a cazzeggiare: è un atteggiamento che non vuole negare la drammaticità del momento, ma che contrappone al terrore legittimo, ma inutile, l’ironia e l’autoironia come forme estreme di Resistenza, come a dire: ridiamo, non ci fate paura.
Così al microfono qualcuno inizia a cazzeggiare e a strappare risate, indossa la maglietta della squadra di rugby dei Bradipi, il che è tutto un programma.
In autostrada l’orizzonte è circoscritto dalla Catena delle Alpi, illuminata dalle prime luci del giorno, con una vista spettacolare e mozzafiato.
Arriviamo a Genova in tempo per disporci lungo il corteo che è già partito.
Questi compagni e queste compagne del Trentino sono le persone più pacifiche del mondo, cerchiamo infatti di posizionarci in un punto del corteo dove non ci siano gruppi strani e quindi lontani da possibili scontri.
Naturalmente questa ricerca ci porterà a posizionarci esattamente dove il corteo sarà militarmente attaccato dalle forze dell’ordine.
A Genova la giornata è splendida e il corteo ad un certo punto scorre con a sinistra un mare meraviglioso.
Sulla destra un alto e lungo muro sormontato da una sequela di palazzi attaccati l’uno all’altro, qualcuno ci butta acqua per rinfrescarci.
Improvvisamente il corteo viene attaccato da una fittissima selva di candelotti di gas asfissiante ed urticante di ultima generazione che nulla ha a che spartire con i classici gas lacrimogeni.
Il corteo viene quindi tagliato in due e la testa, dove ci sono parlamentari e personalità che avrebbero dovuto fare da scudo, può proseguire più o meno indisturbata.
Il lancio dei candelotti è continuo e i colpi arrivano da davanti, ma anche dall’alto, dagli elicotteri che si calano sulla folla assordanti alzando nugoli di polvere.
Anche dal mare arrivano candelotti, sparati dalle motovedette delle sedicenti forze dell’ordine.
Ci consultiamo; io sono sicuramente tra quelli che dicono di mollare striscioni e bandiere, di allontanarci dal corteo e di raggiungere alla spicciolata il pullman.
Il segretario della Federazione fa qualche telefonata e ci comunica che il Partito dice di mantenere la nostra posizione nel corteo.
C’è da dire che andarsene è praticamente impossibile perché il corteo dietro di noi continua ad avanzare e preme ignaro dell’accaduto, a destra c’è un alto muro e a sinistra un muro piú basso separa la strada dalla spiaggia e dal mare.
Ci riposizioniamo quindi, come vuole il Partito, e siamo ormai tra le prime file della nuova testa del corteo.
Siamo giusto in tempo per subire l’aggressione finale.
Ad un certo punto vengono spediti contro di noi dei veri e propri piccoli cingolati, che si muovono a velocità sostenuta e ovviamente inizia una fuga scomposta.
Chi ha dato quell’ordine di avanzare è un pazzo criminale che avrebbe potuto provocare decine di morti per schiacciamento, e forse lo desiderava pure.
Io ad un certo momento mi sento sollevare da un’onda di corpi schiacciati insieme.
É finita penso, certo che morirò schiacciato dalla folla in fuga.
Invece mi ritrovo addosso al muro che separa la strada dalla spiaggia, tendo le mani, mi afferrano e mi sollevano.
Sono sulla spiaggia, sono vivo e sono salvo.
Una voce chiede aiuto, mi sporgo e aiuto una ragazza ad arrampicarsi e a mettersi in salvo.
É una catena: chi viene salvato aiuta a salvarsi chi è lì sotto, sommerso nella folla che preme contro il muro.
Riconosco altri compagni trentini, ci raduniamo, mentre su di noi un elicottero minaccioso alza nuvole di sabbia e di polvere.
L’unica strada aperta sta paradossalmente davanti a noi verso le schiere della celere. Centinaia e centinaia, migliaia di manifestanti si dispongono ordinatamente in fila indiana, “arrendendosi” e consegnandosi alla polizia, tutti con le mani in alto, per passare così la linea del fronte ed entrare nell’area controllata dalle forze dell’ordine.
Oltre alle mani teniamo alta la testa e così vedo tra quei militi sguardi di disprezzo e di odio, ma anche di vergogna.
Penso: Guardate che ci avete fatto, che cosa vi hanno fatto fare, al vostro Paese, alla Repubblica, alla Costituzione.
Delle mie mani alzate, della mia resa, io non provo vergogna. Siete voi che dovete provare vergogna, non io – penso.
Da quel momento in poi la nostra è fuga da una città in mano alle forze golpiste (non riesco più a chiamarle forze dell’ordine), tra feriti che sanguinano, provocatori di ogni risma che sfasciano tutto indisturbati, vetrine in frantumi, piccoli incendi, colonne di fumo, cortei improvvisati e cariche da schivare.
Io, che non so dire bugie, racconto invece al telefono una realtà rassicurante e mi piace credere alle balle che racconto per tranquillizzare chi mi chiama.
Arriviamo miracolosamente al pullman, tutti, e partiamo sani e salvi.
inconsapevolmente stiamo lasciando al loro destino le compagne e i compagni che dormiranno alla Diaz e che saranno torturati nella caserma di Bolzaneto.
Dall’inferno di Genova in realtà non siamo mai completamente usciti.