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Cessate il fuoco a Gaza: film-denuncia sulle terribili conseguenze che una società militarizzata determina nei giovani israeliani. Un appuntamento che conferma l’impegno di una parte significativa della società civile catanese di fronte a quanto sta accadendo nella Striscia e nei territori occupati

Mercoledì 17 luglio, alle ore 20,30, presso il cinema Arena Corsaro, promosso da catanesi solidali con il popolo Palestinese, sarà proiettato il film “Innocence”, del regista israeliano Guy Davidi che da tempo è stato costretto a lasciare il proprio Paese per aver documentato l’occupazione militare di Gaza e i soprusi subiti dal popolo palestinese

Secondo la Corte Internazionale di Giustizia siamo di fronte a un “plausibile genocidio”. Oltre 37.000 morti, per la maggior parte donne e bambini, un numero destinato a crescere, come dimostrano gli ultimi bombardamenti da parte dell’esercito israeliano contro campi profughi e strutture scolastiche. La richiesta di un immediato cessate il fuoco (risoluzione votata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, 25 marzo 2024) e della possibilità per il popolo palestinese di decidere del proprio futuro sono state le principali rivendicazioni delle mobilitazioni e dei momenti pubblici di riflessione. Anche gli studenti universitari catanesi, attraverso l’accampada, non hanno fatto mancare la loro voce critica e hanno chiesto al Rettore e al Senato Accademico etneo di applicare coerentemente il codice etico dell’Ateneo rifiutando gli accordi con le università israeliane che, direttamente o indirettamente, contribuiscono alla ricerca bellica e di interrompere i rapporti con aziende come Leonardo, uno dei principali produttori di armi a livello mondiale. Richieste che non hanno trovato adeguate risposte da parte dei vertici dell’Ateneo: 49 docenti catanesi, con una lettera al Rettore e al Senato Accademico, ritengono che l’Ateneo debba fare di più e si impegnano perché nei prossimi mesi nasca un “Forum permanente dell’Università di Catania su diseguaglianze e conflitti”.

vedi lettera dei docenti-Unict per la Palestina su argocatania

 

Mosopysiek di Benet, comunità indigene sotto sgombero in nome della conservazione: dagli altopiani del Monte Elgon (Uganda), la resistenza ai piani della conservazione coloniale ci mostra un nuovo modo di affrontare la crisi climatica alle sue radici

Riprendiamo da Dinamopress una sintesi dell’articolo di Matteo Carosi sulla condizione dei Mosopisyek di Benet documentata da un video lanciato da un appartenente del popolo indigeno. Dalle immagini si rileva che – scrive l’articolista – “i ranger sparano addosso ai pastori, che scappano con le loro mucche, loro unico mezzo di sostentamento, per evitare che gli vengano sequestrate”. Il tutto sarebbe legittimato sulla base dell’«Uwa Act del 2019, che regola la gestione delle aree di conservazione, infatti, ai pastori è severamente proibito andare a pascolare nelle aree protette come il Mount Elgon National Park, pena il sequestro del bestiame, che riescono a ottenere indietro pagando una multa di 50.000 Ugandan shilling per capo di bestiame (circa 14 dollari americani), una misura repressiva che sta impoverendo le comunità dell’area»

Un video dalle immagini sgranate e poche parole in un messaggio di testo: «Good morning my friend, how is Italy?» «Buongiorno amico mio, come va in Italia?». Alex, membro del popolo indigeno dei Mosopysiek di Benet in Uganda, inizia così a raccontare cosa sta succedendo nell’area di Mount Elgon dove vive. Stanno sgomberando la sua gente, cacciatori-raccoglitori indigeni, dalla loro terra ancestrale, come aggiunge poi nel messaggio, in nome della conservazione: «A lot is happening to our people, we are being evicted, arrests, shootings, like we don’t belong to this country». «Stanno accadendo molte cose alla nostra gente, ci stanno sgomberando, arresti, spari, come se non appartenessimo a questo paese». È la Uwa, Uganda Wildlife Authority, per volontà del governo ugandese, finanziato dai progetti delle grandi Ong della conservazione occidentale come la Iucn, Unione internazionale per la conservazione della natura, con sede in Svizzera, che gli sta sparando addosso. Dall’ esproprio della terra da parte del governo coloniale britannico nel 1920 fino all’attuale gestione del parco nazionale creato nel 1993, l’approccio alla conservazione mantiene lo stesso tenore coloniale, che genera violenza strutturale contro gli indigeni marginalizzati per gli interessi dell’impero britannico prima e ora per le politiche di conservazione delle Ong occidentali che non li considerano in grado di gestire la protezione della loro terra ancestrale.

leggi integralmente l’articolo su Dinamopress

 

Gambia. ActionAid: “Le mutilazioni sono una pratica dannosa contro le donne”.  L’ Assemblea nazionale a maggioranza ha votato contro l’emendamento, mantenendo in vigore il divieto di praticare le MGF nel Paese

Il disegno di legge mirava alla cancellazione del divieto di praticare le mutilazioni genitali femminili: “Lo scorso marzo, i membri dell’Assemblea nazionale avevano votato per la revoca della legge che, dal 2015, vieta le mutilazioni genitali femminili”

Il Gambia sarebbe stato il primo Paese a reintrodurre una pratica considerata una grave violazione dei diritti umani delle bambine e delle donne. La conferma di questa inversione di tendenza avrebbe vanificato anni di lavoro delle organizzazioni della società civile e delle attiviste impegnate nella lotta contro questa pratica dannosa. Il risultato di ieri, infatti, è stato possibile anche proprio grazie ai movimenti contro le MGF, non solo in Gambia ma anche in Europa e a livello internazionale, come la rete europea contro le MGF (End FGM EU), di cui ActionAid fa parte. (…) In questo Paese dell’Africa occidentale, si stima che il 73% delle ragazze e delle donne tra i 15 e i 49 anni sia stato sottoposto a MGF. Considerata l’alta prevalenza di questa pratica lesiva, il divieto rappresenta una pietra miliare significativa. Tuttavia, per sradicare completamente le MGF è necessario un cambiamento sociale che potrebbe richiedere molti anni; e il sostegno delle istituzioni governative è fondamentale.

lettura integrale su Redattore Sociale

 

Profitti facili, come le banche si sono arricchite sulle nostre spalle. Gli ultimi due anni hanno visto il ritorno sulle scene di un protagonista che sembrava sparito dal dibattito economico: l’inflazione 

L’uscita dal periodo pandemico prima e lo scoppio del conflitto in Ucraina sono stati i due fattori detonanti, amplificati dal tentativo – riuscito –  dei padroni di approfittare dell’aumento del costo di varie materie prime per aumentare ulteriormente i prezzi e i propri profitti. In questo contesto, la risposta delle Banche Centrali delle principali economie avanzate e della Banca Centrale Europea in particolare è stata la solita: aumentare i tassi di interesse a tutto spiano allo scopo di creare disoccupazione e indurre i lavoratori ad accettare riduzioni dei propri salari e farsi carico di tutto il peso del contenimento dell’inflazione

La ripresa post-Covid si è portata appresso, come abbiamo modo di vedere tutti i giorni facendo la spesa, il rialzo dei prezzi. Per rispondere all’inflazione, la BCE ha deciso di alzare i tassi di interesse praticati alle banche, a partire dal 2022. Le banche, a loro volta, hanno alzato i tassi sui prestiti, mantenendo bassissimi quelli sui depositi, aumentando dunque la differenza tra i due. Una delle principali entrate bancarie deriva proprio dalla differenza tra il tasso a cui prestano denaro e quello pagato ai propri correntisti. Sostanzialmente, le banche sono riuscite ad aumentare i loro profitti pagando meno ai depositanti e ricevendo di più dai mutuatari. Inoltre, la questione della remunerazione dei depositi delle banche presso la BCE si è evoluta in favore delle banche. Con il rialzo dei tassi è venuto meno il sistema di doppia remunerazione, ma attualmente le riserve in eccesso che le banche depositano presso la BCE sono pagate dalla stessa BCE a un tasso del 4%. È quindi molto conveniente per le banche lasciare il denaro “parcheggiato” presso la Banca Centrale: oggi, lasciando il denaro fermo, le banche guadagnano più di quanto due o tre anni fa ottenessero da un mutuo. È evidente che, per usare il denaro in maniera rischiosa e più profittevole, il tasso richiesto dalle banche (per esempio su un mutuo) sarà ben maggiore del 4%. Perché le banche hanno potuto aumentare i tassi attivi sui prestiti e lasciare bassi quelli passivi sui depositi? La ragione è che, grazie alle politiche espansive che la BCE ha condotto fino al 2022, sono piene di liquidità e non hanno bisogno di farsi concorrenza l’un l’altra per accaparrarsi i depositi del pubblico. In una situazione di forte concentrazione, l’effetto finale è una concorrenza praticamente nulla, in un contesto in cui i costi di gestione dei depositi e dei conti correnti sono rimasti ai livelli a cui erano stati portati in precedenza, e dunque maggiori rispetto al passato. Il risultato finale di tutto questo? I profitti bancari nei Paesi europei sono schizzati alle stelle, e l’Italia si è particolarmente contraddistinta in questo campo, tanto che la stampa nostrana ha potuto definire il 2023 come l’anno d’oro delle banche, con profitti di oltre 43 miliardi di euro. Ecco, quindi, che la politica monetaria, da mero strumento tecnico che serve a garantire il regolare funzionamento di un’economia di mercato, si rivela per quello che è realmente: uno strumento della lotta di classe, dalla natura eminentemente politica e che è in grado di modificare in maniera violenta la distribuzione del reddito. Uno strumento che crea vinti (i lavoratori) e vincitori (il capitale e le banche), mentre il Governo Meloni rimane a guardare benevolo, varando la farlocchissima imposta sugli “extraprofitti” bancari, che ha avuto il notevolissimo risultato di riscuotere 0 euro.

approfondimenti su coniarerivolta

 

Proteste e lotte sociali. Intervento di Claudio Novara: “alla destra non basta il codice Rocco” 

Rilanciamo  un ampio stralcio dell’intervento pubblicato su Volere la Luna dal noto penalista del foro torinese che in questi anni è stato impegnato in numerosi processi in tema di movimenti e lotte sociali

C’era una volta il codice Rocco. Un codice che, pur recuperando alcuni principi della tradizione penalistica liberale, si muoveva (e si muove, visto che continua a essere, con le ovvie variazioni dovute al tempo trascorso, uno dei pilastri del nostro ordinamento giuridico) in una prospettiva marcatamente autoritaria, in cui la potestà punitiva, secondo quanto si legge nei Lavori preparatori al codice, consisteva nel «diritto di conservazione e di difesa proprio dello Stato, nascente con lo Stato medesimo e avente lo scopo di assicurare e garantire le condizioni fondamentali e indispensabili della vita in comune». In coerenza con la concezione etica dello Stato e con la matrice ideologica del regime in tema di rapporti tra autorità amministrativa e cittadini, il codice prevedeva (e prevede), agli articoli 336 e 337, una protezione rafforzata delle condotte di coloro i quali (come gli operatori delle forze dell’ordine) svolgono, secondo il successivo articolo 357, una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. La ratio di tale trattamento particolare viene ravvisata nelle esigenze di tutela del funzionamento e del prestigio della pubblica amministrazione, che non deve subire intralci né condizionamenti nel momento di attuazione delle proprie decisioni attraverso l’attività dei pubblici funzionari. Si tratta, come è stato efficacemente segnalato da una parte della dottrina penalistica, di una prospettiva in contrasto con uno dei canoni fondamentali dello Stato di diritto, quello di uguaglianza, secondo cui la condizione personale degli appartenenti alla pubblica amministrazione dovrebbe essere parificata a quella dei normali cittadini, con la conseguenza che le condotte di violenza, minaccia o resistenza commesse nei loro confronti dovrebbero integrare reati quali quelli che riguardano la generalità dei consociati. Vale la pena di ricordare che, invece, proprio a tali norme è da sempre assegnato il compito di sanzionare le lotte sociali, anche quelle a bassa intensità. Ed è proprio con lo sguardo rivolto al conflitto sociale che il codice prevedeva poi, all’art. 339, due specifiche aggravanti: la prima se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte, la seconda – che rimanda al caso tipico degli scontri nelle manifestazioni di piazza e che porta la pena da 3 a 15 anni di reclusione – se la violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di dieci persone, pur senza uso di armi. Ho usato, non a caso, l’imperfetto perché nel corso degli anni, tale impianto normativo è stato più volte ritoccato, con interventi che fanno quasi rimpiangere il testo originario. In breve, non solo abbiamo un codice che risale al ventennio fascista, ma il legislatore repubblicano è riuscito a peggiorarlo ulteriormente, nonostante uno dei primi interventi riformatori dell’Italia liberata dal nazifascismo (attuato con il decreto legislativo luogotenenziale n. 288/1944), che lambisce le due fattispecie in esame, prevedesse, tra le altre cose, l’introduzione della scriminante della reazione legittima del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, cioè il diritto del cittadino a contrapporsi a un atto illegittimo del pubblico ufficiale e a non vedersi, così, condannato per il reato di resistenza. Una disciplina negletta, questa, anche se costituisce uno degli snodi normativi fondamentali in tema di rapporti tra istituzioni e società civile, il cui utilizzo è stato, nel corso dei processi degli ultimi 30 anni, molto parco e sporadico. È soprattutto negli ultimi 20 anni, a fronte di uno scontro sociale sicuramente meno esteso di quello degli anni “caldi” del secolo scorso, che si sono avuti alcuni interventi legislativi che hanno inasprito il quadro normativo, tutti introdotti nell’ordinamento con decreti legge, emanati da Governi (e approvati da maggioranze parlamentari) di diverso orientamento politico.

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