Una sanità diseguale, con contratti temporanei in decollo e retribuzioni reali in picchiata

La Legge 26 giugno 2024, n. 86, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’Autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, definita anche “Legge spacca Italia”, dopo l’approvazione definitiva, arrivata lo scorso 19 giugno 2024 alla Camera dei Deputati, è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 150 del 28 giugno 2024 ed è entrata in vigore ieri 13 luglio: https://temi.camera.it/leg19/provvedimento/19_tl18_regioni_e_finanza_regionale.html.

Lo scorso 5 luglio 34 esponenti di associazioni rappresentative della società civile, del mondo cattolico e dell’ambientalismo (in gran parte della Via Maestra), quasi tutti i partiti che non sostengono il governo delle destre a guida Meloni (con la sola eccezione di Azione, che ha comunque espresso critiche nette alla riforma), la CGIL e la UIL e molte personalità hanno già depositato alla Corte di Cassazione a Roma il quesito referendario con cui si vorrebbe abrogare la riforma.

Una partita non facile e di non sicuro successo, ma che bisogna fare, non senza dimenticare le responsabilità di chi a suo tempo per rincorrere i “desiderata leghisti” arrivò ad approvare una sgangherata riforma del Titolo V della Costituzione, dando la stura al regionalismo conflittuale e diseguale di quest’ultimo ventennio e ai disastri di oggi.

Anche alcune Regioni (quelle governate dal centrosinistra) si stanno muovendo per contrastare la “Legge Calderoli” per via referendaria, anche se vi sono forti perplessità sul quesito da loro proposto, di qui l’appello dei Comitati per il ritiro di ogni autonomia defferenziata:
https://perilritirodiqualunqueautonomiadifferenziata.home.blog/.

E proprio mentre inzia la raccolta di firme per il referendum abrogativo della “Legge Calderoli” (le firme si potranno raccogliere dal 20 luglio al 15 settembre) vale la pena dare uno sguardo al recente Rapporto “Opportunità di tutela della Salute: le Performance Regionali”- XII edizione (2024), messo a punto dal Centro per la ricerca economica applicata in sanità (C.R.E.A. Sanità), che opera da oltre vent’anni nell’Università di Tor Vergata di Roma.

“La valutazione 2024 delle performance regionali, in tema di opportunità di tutela socio-sanitaria offerta ai propri cittadini, oscilla – si legge nel Rapporto – da un massimo del 60% (fatto 100% il risultato massimo raggiungibile) ad un minimo del 26%: il risultato migliore lo ottiene il Veneto ed il peggiore la Calabria.

Si conferma come i livelli di Performance regionali risultino ancora significativamente distanti da un target ottimale e come il divario fra la prima e l’ultima Regione sia decisamente rilevante e come un terzo delle Regioni non arrivi ad un livello pari al 40% del massimo ottenibile.”
Qualitativamente, nel ranking messo a punto dal CREA, vengono identificati 4 gruppi di Regioni: 4 Regioni, Veneto, Piemonte, P.A. di Bolzano e Toscana, raggiungono livelli complessivi di tutela significativamente migliori delle altre, con un indice di performance che supera il 50% di quella massima (rispettivamente 60%, 55%, 54% e 53%).
Nel secondo gruppo troviamo, invece, 7 Regioni con livelli dell’indice di performance abbastanza omogenei, compresi tra il 50% ed il 45%: Friuli Venezia Giulia, P.A. di Trento, Emilia-Romagna, Liguria, Valle d’Aosta, Marche e Lombardia.
Nel terzo gruppo si attestano poi Sardegna, Campania, Lazio, Umbria, Abruzzo e Puglia, con livelli di performance compresi nel range 37-44%.
Infine, 4 Regioni, Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria, si attestano su livelli di performance inferiori al 35% del massimo raggiungibile.

Qui il Report del CREA: https://www.creasanita.it/wp-content/uploads/2024/06/DEF_Le-Performance-Regionali_2024.pdf.

Al di là delle disuguaglianze territoriali, che l’Autonomia differenziata non farebbe altro che aggravare, la sanità pubblica si va sempre più precarizzando ovunque, con i medici in fuga dal Servizio Sanitario Nazionale. Lo certifica il secondo rapporto della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO) e del Censis.
Considerate le unità annue di lavoro a tempo determinato e interinali per le figure sanitarie si registra +75,4% nel 2012-2022: +29,6% nel 2012-2019 e +35,4% nel 2019-2022.
Tra 2012 e 2022 ci sono 15.320 unità annue di lavoro in più.
Le figure sanitarie con contratti a tempo determinato sono aumentate del +78,1%: con +23,1% in fase pre-Covid e +44,6% in quella successiva.
Per le figure sanitarie stabili invece nello stesso periodo 2012-2022 si registra un modesto +2,6%, -2,0% tra 2012 e 2019 e + 4,6% tra 2019 e 2022, grazie alla reazione all’emergenza.
I dati certificano che si gonfia il numero di intermittenti, mentre quello del personale stabile aumenta di poco.
La spesa per lavoro a tempo determinato, consulenze, collaborazioni, interinale e altre prestazioni di lavoro sanitarie e sociosanitarie provenienti dal privato è stata pari a 3,6 miliardi di euro nel 2022: +66,4% rispetto al 2012, esito di +15,1% nel 2012-2019 e +44,5% tra 2019 e 2022.
La spesa per il tempo determinato è stata nel 2022 pari a 1,9 miliardi di euro, con +93,4% rispetto a dieci anni prima; quella per consulenze, collaborazioni, interinale e altre prestazioni di lavoro sanitarie e sociosanitarie è stata pari a 1,7 miliardi di euro, con un balzo del +44,2% in dieci anni.
La spesa per personale permanente invece è aumentata del +6,4% nel 2012-2022, con -0,8% nel 2012-2019 e +7,2% nel 2019-2022.
“In Italia, si legge nel Rapporto, non c’è un reale shortage (carenza) di medici poiché sono 410 per 100 mila abitanti, dato superiore a quelli di Paesi come Francia (318 medici per 100 mila abitanti) o Paesi Bassi (390 medici per 100.000 abitanti).
Non attraenti sono le condizioni di lavoro e le retribuzioni contrattuali che, per i medici nella PA nel periodo 2015-2022, hanno registrato in termini reali un duro -6,1%.
Posto pari a 100 il valore delle retribuzioni dei medici dipendenti in Italia, nei Paesi Bassi è pari a 176, in Germania a 172,3 e in Irlanda a 154,8: i medici italiani guadagnano molto meno dei colleghi di altri Paesi omologhi.”
Da qui l’inevitabile fuga dal Servizio sanitario verso soluzioni professionali meno logoranti e a più alta gratificazione, nella libera professione così come nelle sanità di altri paesi.

Tutto ciò, è l’amara conclusione del Rapporto, a causa del “perverso circuito regressivo che il primato dell’economia e delle logiche aziendalistiche hanno generato nel Servizio sanitario.

Lungi dal risolvere i problemi di sostenibilità economica hanno reso possibili e praticabili soluzioni, come quello del lavoro temporaneo acquistato sul mercato libero professionale, che fragilizzano ulteriormente il Servizio sanitario, non senza generare costi elevati e, di certo, non funzionali alla buona gestione economica.”

Intanto, sul tanto strombazzato decreto legge sulle “liste d’attesa” tutte le Regioni, tranne il Lazio, hanno bocciato il testo fermo in commissione Affari sociali alla Camera (che dovrà essere convertito in legge entro il prossimo 6 agosto) perché lede le loro competenze costituzionali.

Anche se l’aspetto più grave di tale provvedimento è la parificazione delle strutture sanitarie private a quelle pubbliche, che rischia – se approvato – di mettere la parola la fine al S.S.N.: https://www.regioni.it/home/stato-regioni-sanita-conferenza-regioni-parere-negativo-su-decreto-liste-di-attesa-3020/.

Qui il Rapporto completo FNOMCeO-Censis “Il necessario cambio di paradigma nel Servizio Sanitario Nazionale: stop all’aziendalizzazione e ritorno del primato della salute”:
https://fnomceo-my.sharepoint.com/:w:/g/personal/m_molinari_fnomceo_it/EUhW3zjHF0JMhF8F0rC9EM0B-mpN-y1NkZpR2O0AwGtJJA?rtime=_fcV9Uai3Eg.