L’ultima volta che ho sentito Suliman Ahmed Hamed è stato per Whatsapp una decina di giorni fa: stava con la moglie Fatima ad Al Qadarif (Sudan dell’est, vicino al confine etiopico), da alcuni parenti ed erano lì fermi già da più di una settimana. Provenivano da Kumer (in Etiopia, vicino a Gondar) dove erano stati per 11-12 mesi in un campo profughi delle Nazioni Unite con scarsissimo livello di igiene e una crescente mancanza di sicurezza, che raccoglieva 10.000 persone fra sudanesi, sud sudanesi ed eritrei.

“Prima che tornino le piogge e il colera come l’anno scorso, partiamo” mi aveva detto, e questo era solo uno dei motivi per cui avevano deciso di muoversi. Il motivo principale è che si andava sempre più capendo che lì invece non si muoveva nulla: dopo che le commissioni dell’Onu, con lentezza infinita, erano riuscite a intervistare tutti i presenti (processo durato diversi mesi) e dopo aver assegnato a tutti il diritto all’asilo politico mancava – ormai da troppo tempo, secondo Suliman- il passaggio alla fase successiva, cioè l’assegnazione delle destinazioni e la chiusura del campo. Troppi gli interessi da parte degli stessi funzionari dell’Onu di nazionalità etiopica perché restasse aperto, situazione che permetteva loro di trafugare buona parte delle vettovaglie destinate ai richiedenti asilo. E poi, come già detto, c’era la questione della sicurezza. Nel campo erano sempre più frequenti le aggressioni da parte dei ribelli etiopici (ribelli al loro governo, sembra, ma in realtà delinquenti comuni disposti anche a uccidere – come hanno fatto più di una volta- per un cellulare o per qualche soldo, pochi). Gli addetti alla sicurezza del campo chiudevano gli occhi, complici.

Ho conosciuto Suliman vent’anni fa quando era rifugiato politico nel nostro Paese: gli attacchi dei Janjaweed, in particolare nel Darfour (era lì che viveva allora, a Nyala, dove è nato), si erano intensificati e lui – da sempre politicamente attivo – era nel mirino. Dopo un viaggio terribile e rischioso, prima per il deserto poi per mare, aveva raggiunto l’Italia e poi Roma e aveva ottenuto l’asilo politico.

Nella scuoletta di italiano di “Medici contro la tortura” anche lui venne a frequentare le lezioni. Ricordo che spesso doveva uscire dall’aula perché gli suonava il telefono: era in continuo contatto con non so che forze di resistenza e veniva aggiornato ogni giorno sul numero di morti, feriti, villaggi incendiati e capi di bestiame massacrati. Poi riferiva a tutti gli altri. La sua pacatezza e le sue capacità organizzative ed anche oratorie facevano di lui un ‘capo’ naturale, e la sua generosità e disponibilità lo rendevano compagno e amico sincero. E’ rimasto a Roma nove anni. Caduto Beshir, ha potuto tornare in Sudan.

A Khartoum ha lavorato per le Nazioni Unite finché ce n’è stata la possibilità, ma insieme alla moglie Fatima e al nipote Nasredin ha dovuto lasciarla a causa della guerra scoppiata nell’aprile 2023 e dopo diverse settimane ha raggiunto il campo profughi dell’Onu a Kumer. Sono rimasti lì dal luglio scorso fino ai primi di giugno del 2024.

Quando un mese e mezzo fa ha lasciato il campo di Kumer mi ha raccontato che molte donne piangevano: era stato in tutti quei mesi un interfaccia dallo sguardo largo quando arrivavano nel campo i funzionari dell’Onu e chiedevano di poter parlare con qualcuno (tanti altri invece approcciavano le ‘autorità’ per lamentarsi ognuno esclusivamente della propria personale situazione). In particolare si era molto attaccata a Suliman una donna vicina di tenda con due figli bambini-adolescenti (“Eravamo come un’unica famiglia”): una donna rimasta senza marito (probabilmente morto in guerra) e senza alcuna protezione, per sé stessa e per i figli, di fronte alle violenze gratuite e imprevedibili del campo. Alla partenza di Suliman e Fatima questa donna piangeva più di tutte le altre. Sono rimasti in contatto via Whatsapp e lei continuava a essere disperata.

Non più di una settimana dopo Suliman ha ricevuto dal nipote Nasredin (lasciato al campo perché troppo giovane per rimettere piede in Sudan, a rischio sicuro di diventare preda di un esercito o dell’altro), la notizia che questa giovane donna era stata ammazzata. Stava andando con pochi soldi a comprare qualcosa per i figli in una specie di mercatino lì del campo: i ribelli (chiamiamoli pure Janjaweed) l’hanno intercettata e per rubarle il cellulare e quei pochi soldi le hanno sparato, uccidendola. Disperazione della figlia e del figlio. La sicurezza del campo ha preteso che i funerali fossero fatti lontano, in cima a una collina.

Suliman e la moglie avrebbero voluto lasciare velocemente Al-Qadarif, per proseguire (verso il lontano ahimè Egitto, ma forse passando prima a Port Sudan – dove si è attualmente ritirata l’ambasciata sudanese – perché Fatima ha il passaporto scaduto); velocemente perché questi assassini ‘Janjaweed degli anni duemila’ stavano spostandosi sempre più verso est ed erano ormai arrivati a circa 150 chilometri da Al-Qadarif. Era giunta la notizia che nella cittadina di Al-Jazeera (sì, come l’emittente) o in un villaggio lì intorno avevano fatto una strage particolarmente crudele: fuori da ogni casa tutta la numerosa famiglia che la abita e si uccidono tutti meno uno. Una sola persona per famiglia resta viva affinché qualcuno provi la sofferenza e il lutto per sempre.

L’urgenza di andarsene però cozzava col caldo eccezionale che impediva qualsiasi movimento o progetto di viaggio (e un viaggio di quelli rocamboleschi, faticosissimo). Il caldo – mi diceva Suliman – era molto forte in tutto il Sudan ed anche in Egitto. Arrivava la notizia che intorno ad Assuan era arrivato addirittura a 70 gradi e decine di persone erano morte. In questo dilemma “meglio non partire – meglio non restare” li ho lasciati una decina di giorni fa.