Se al 21 marzo chi si preoccupa della situazione disastrosa nelle carceri gridava, dati alla mano, che dall’inizio dell’anno si era registrato un suicidio ogni 3 giorni, adesso abbiamo un nuovo record su cui riflettere: 3 suicidi in un solo giorno. E siamo a 55. Con un ulteriore numero, 63, di morti per “altre cause”. 

Particolarmente atroce il caso del ragazzo tunisino appena ventenne che si è impiccato nel carcere di Sollicciano, a Firenze. Avrebbe finito di scontare la pena a novembre del 2025. A Sollicciano è scoppiata la protesta, con aggressioni a due agenti della polizia penitenziaria e atti di autolesionismo, mentre nel carcere minorile un ragazzo che si era legato al collo un lenzuolo è stato fermato dal compagno di cella. Il Presidente della Regione ha chiesto interventi straordinari per i penitenziari toscani, soprattutto per quelli di Firenze e Livorno che versano in condizioni definite critiche, ma quali condizioni e quali carceri non lo sono? Bisogna aspettare suicidi che accendano l’indignazione dei media, rivolte con detenuti e agenti feriti?

A non suscitare grande interesse è stato invece il suicidio in carcere di un uomo di 81 anni. Non condannato. Semplicemente accusato. A Maschito, piccolo paese lucano in provincia di Potenza, Vincenzo Urbisaglia avrebbe ucciso il 29 giugno la moglie, di anni 73, strangolandola nel corso di una lite. Avrebbe, dato che, appunto, né è stato colto in flagrante né ha subito un processo, e che dal giorno fatidico in cui l’hanno arrestato si è sempre dichiarato innocente.

Vincenzo Urbisaglia non stava bene. Era in stato confusionale quando l’hanno interrogato, lo era probabilmente prima e certamente lo era dopo, tanto che i suoi legali avevano presentato un’istanza di scarcerazione al GIP basata non soltanto sull’età, ma sullo stato psicofisico dell’uomo. La domanda era stata respinta, come se tenere in carcere un ultraottantenne, malato nel corpo e nell’animo, sia doveroso, giusto, o forse chissà, come da art. 27 co. 3, premessa alla “rieducazione del condannato”. Un condannato che poi non era tale, va precisato.

Il segretario del Sindacato di Polizia Penitenziaria Aldo di Giacomo, che ha diffuso la notizia, ci ha tenuto a precisare che Urbisaglia era «apparso subito non molto lucido», aggiungendo come considerazione personale (meno male che qualcuno si prende la responsabilità di un’opinione scomoda) che nel suo caso il carcere «non era proprio indicato». Sulla condizione degli agenti penitenziari, poi, non un’opinione ma un ritornello che ormai ascoltiamo da tempo ma che chi ha il potere di cambiare le cose evidentemente non trova degno di attenzione: «Noi agenti penitenziari siamo abbandonati a noi stessi», e ancora «Il rispetto per la vita non interessa alla politica, come le condizioni disumane in cui si vive nelle carceri italiane sia per i detenuti che per gli operatori penitenziari».

Pochi giorni in galera, sedato dal medico del carcere perché in evidente stato alterato (e un medico che può fare, se non intontire con farmaci i detenuti alterati? che stiano buoni, che non diano problemi), Vincenzo Urbisaglia si toglie la vita l’8 luglio. Non sapremo mai a cosa ha pensato, in quei nove maledetti giorni rinchiuso. Magari alla moglie, alla tragedia, alle sue responsabilità. Magari è solo impazzito a essere ingabbiato, lui che aveva trascorso tutta la vita libero. Oppure si è ucciso non capendo quasi quello che stava facendo. Sicuramente, è morto a causa del carcere. Di una misura insensata, di un sistema folle a cui diamo il nome di “giustizia”.