La nozione di “paese sicuro” non può ritenersi corrispondente a quella di “paese di origine sicuro”. Il “paese di origine sicuro” è un istituto introdotto per i richiedenti asilo dal legislatore europeo che trova la sua disciplina nell’articolo 36 della direttiva 2013/32/UE c.d. “procedure”, per cui «a norma della presente direttiva un paese terzo può essere considerato paese di origine sicuro per un determinato richiedente, previo esame individuale della domanda, solo se: a)  questi ha la cittadinanza di quel paese; ovvero b) è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel paese, e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel paese non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso e per quanto riguarda la sua qualifica di beneficiario.

La lista di Paesi di origine sicuri per richiedenti protezione internazionale è stata introdotta con decreto legge del 4 ottobre 2018 e poi sostituita da una nuova e più ampia lista con decreto del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) del 17 marzo 2023. La Tunisia, è compresa sia nella prima lista redatta nel 2019 che in quella del 2023.

Il termine di “paesi  sicuri” richiamato dal Consiglio di Stato, anche alla luce della legislazione interna, riguarda dunque soltanto “paesi di origine sicuri” con esclusivo riferimento ai cittadini di questi paesi richiedenti asilo. Il Consiglio di Stato travisa la portata della definizione di paesi di origine sicuri e, dietro la sintetica definizione di “paese sicuro”, sembra ritenere che questa valga anche per persone che non hanno la cittadinanza di quei paesi. Persone che una volta sbarcate in Tunisia non hanno accesso effetivo alle procedure di asilo, o alcuna tutela giurisdizionale contro le violazioni dei diritti fondamentali che subiscono. Al punto che persino gli avvocati che ne assumono le difese possono finire agli arresti, subire processi ed assere condannati per avere criticato le politiche repressive del presidente Saied.

Rimane dunque privo di motivazione, con riferimento alla Tunisia, il continuo rinvio dalla nozione di “paese sicuro” al diverso termine, di portata ben diversa, di Place of safety (POS), o porto sicuro di sbarco che evidentemente riguarda tutte le persone soccorse in mare, anche cittadini di paesi terzi che non hanno la nazionalità del paese che garantisce il luogo di sbarco. Che per i giudici amministrativi sembrano coincidere. Come se attribuissero portata normativa a certi titoli di giornale o ai proclami elettorali che definiscono la Tunisia come un “posto sicuro”, sicuro forse per i turisti, ma non certamente per chi si oppone a Saied e per i cittadini di paesi terzi, soprattutto provenienti dall’Africa subsahariana, intrappolati in quel paese, oggetto di continue aggressioni e senza vie legali di fuga.

Le prassi violente attuate dalla polizia tunisina sono in contrasto con gli standard minimi di tutela dei diritti fondamentali della persona sanciti dalle Convenzioni internazionali. Lo denunziano non solo le Organizzazioni non governative che rimangono in contatto con le persone deportate nel deserto, ma anche agenzie europee e delle Nazioni Unite che difendono i diritti umani e chiedono l’evacuazione dalla Tunisia verso paesi davvero sicuri.

 

2. Le Convenzioni internazionali chiariscono cosa si deve intendere per paese terzo sicuro e Place of safety, porto sicuro di sbarco. In base al diritto internazionale, un paese terzo si può definire come paese terzo sicuro, e dunque garantire un POS (Place of safety), quando:

-non sussistono minacce alla vita e alla libertà del richiedente per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;

– non sussiste il rischio di danno grave (quale definito nella normativa eurpea sulle qualifiche di protezione);

– è rispettato il principio di non-refoulement conformemente alla Convenzione di Ginevra;

– è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, inumani o degradanti sancito dal diritto internazionale;

– esiste la possibilità di godere, secondo il caso, di protezione in virtù delle norme sostanziali della Convenzione di Ginevra o di protezione sufficiente ai sensi della normativa europea.

E’ provato da rapporti internazionali indipendenti e dalle missioni delle Nazioni Unite e dell’Unione europea come la Tunisia non soddisfi nessuno di questi requisitiIn Tunisia non è più garantita neppure la indipendenza della magistratura.

La sicurezza del paese, come paese terzo che garantisca porti sicuri di sbarco, va dunque valutata in base agli standard dei Trattati e delle Costituzioni europee, e non in base a valutazioni di comodo basate sul calcolo politico, su accordi bilaterali, o su Memorandum d’intesa privi di forza di legge. La più recente ordinanza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, adottata il 4 luglio scorso, per confermare la legittimità di un decreto ministeriale, che a sua volta recepiva una “intesa tecnica” tra il ministero dell’interno e il Comando generale della Guardia di finanza, avente ad oggetto la consegna di tre motovedette alla Guardia costiera tunisina, tradisce il principio gerarchico delle fonti normative fissato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione, che invece la Corte di Cassazione tiene fermo, a presidio del principio di legalità, facendone costante applicazione in tutte le sentenze che riguardano attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, a partire dal caso Rackete del 2020 (Cassazione n.6626/20), fino ai più recenti casi Vos ThalassaAsso 28 e Asso 29.

 

3. La circostanza che la Tunisia sia inclusa per effetto di un decreto ministeriale nella lista dei “paesi di origine sicuri”, concetto diverso da paese terzo sicuro, non incide sulla possibilità di qualificare (o meno) come porti sicuri i luoghi di sbarco delle persone intercettate in acque internazionali, dalla Guardia costiera tunisina, ne’ esclude che la stessa Guardia costiera operi in violazione delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Per i migranti, come per i naufraghi intercettati in mare, continuamente esposti a violenze e ad abusi, anche da parte di agenti istituzionali, inclusa la guardia costiera tunisina, non esiste alcuna tutela effettiva, neppure davanti ai tribunali.

Quanto alla istituzione di una zona SAR tunisina, recentemente autoproclamata da Tunisi, occorre ricordare come la istituzione di una zona SAR “libica” risalente al 2018, dopo il Memorandum d’intesa tra Italia e governo provvisorio di Tripoli, non abbia comportato la qualificazione dei porti libici come place of safety (POS) o porti sicuri. Malgrado i ricorrenti tentativi del Viminale di legittimare la sedicente Guardia costiera libica, con esplicite affermazioni di vari ministri dell’interno in favore dei guardiacoste libici, un siffatto riconoscimento lo hanno contestato a ripetizione diverse sentenze dei Tribunali e della Corte di Cassazione. Dunque la istituzione di una zona SAR da parte di uno Stato terzo non implica automaticamente che i porti di quello Stato possano essere qualificati come porti sicuri di sbarco. Ed è qui che dovrebbe rilevarsi la incostituzionalità del Decreto Piantedosi (legge n.15 del 2023) che rinvia la gestione dei coordinamenti delle zone SAR nel Mediterraneo agli Stati che le hanno dichiarate, senza alcuna considerazione per le possibili violazioni dei diritti umani che sono imputabili a quegli stessi Stati nei confronti delle persone che vengono intercettate in mare. Violazioni che invece la giurisprudenza ha saputo accertare e sanzionare nei casi di coinvolgimento di cittadini italiani, come nel caso Asso 28.

Le persone intercettate nella nuova zona Sar tunisina, recentemente proclamata, uno “schiaffo di Meloni ai migranti” come si esprime la stampa filogovernativa, non sono soltanto cittadini di nazionalità tunisina, ai quali non può comunque negarsi il diritto di chiedere asilo. Sono anche cittadini di paesi terzi, ai quali, una volta ricondotti in Tunisia, non sono garantiti, in base alle prassi di polizia ed alla vigente legislazione di quel paese, nessuno di quei diritti fondamentali che vanno riconosciuti a qualsiasi persona prima di essere sbarcata in un porto, dopo una intercettazione in acque internazionali. Anche i Rapporti dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) confermano la situazione di grave pericolo e di discriminazione razziale nella quale si trovano i migranti in transito in Tunisia. La Tunisia non garantisce porti di sbarco sicuri per cittadini di paesi terzi, e spesso neppure per i propri cittadini.

Sia la Corte europea dei diritti dell’Uomo che i Tribunali italiani, da ultimo anche il Tribunale di Firenze, hanno stabilito che la Tunisia non può essere qualificata come “paese sicuro” per suoi cittadini che hanno avuto riconosciuta la protezione contro il rischio di espulsione o di respingimenti collettivi.  Lo afferma da tempo la giurisprudenza italiana che, su base individuale, ha riconosciuto in diverse occasioni, a cittadini tunisini che avevano ricevuto un diniego dalle Commissioni territoriali, la protezione (prima) umanitaria, ed adesso speciale, in base ad una normativa ed al richiamo dell’art. 10 della Costituzione, che non possono essere abrogati da una legge ordinaria, come la legge n.50 del 2023 (ex “Decreto Cutro”). 

A fronte dei rastrellamenti e delle deportazioni collettive di cittadini di paesi terzi presenti, o riportati in Tunisia dalla Guardia costiera tunisina, i suoi porti non possono essere definiti come “place of safety” né possono diventarlo in forza di un decreto interministeriale del governo italiano o di un Protocollo d’intesa UE-Tunisia che non ha forza di atto legislativo.

Alla luce dei più recenti sviluppi repressivi imposti da Saied, con gli arresti le condanne di esponenti dell’opposizione, di avvocati difensori dei diritti umani e di giornalisti, oltre che per la deportazione forzata di migliaia di migranti subsahariani, la Tunisia deve essere cancellata dalla lista dei “paesi di origine sicuri”. La fornitura di motovedette alla Guardia costiera tunisina si può configurare oggettivamente come una aperta complicità nelle politiche di blocco e di intercettazione in mare da parte delle autorità tunisine, che finiscono per esporre i naufraghi riportati a terra ad ogni sorta di violazione dei diritti umani. Complicità che il governo italiano rivendica come un successo della propria politica di contrasto delle migrazioni, che ormai si rivolge prevalentemente contro persone in cerca di protezione, private anche di qualsiasi possibilità di accesso al territorio in un paese davvero sicuro, per presentare una richiesta di asilo.

 

4. Va dunque interrotta la collaborazione prestata dall’Italia e da Frontex alla Guardia costiera tunisina, sia con la fornitura di unità navali che con attività di formazione e cooperazione operativa, anche considerando che il Memorandun d’intesa Ue-Tunisia, come gli accordi bilaterali tuttora vigenti, non hanno natura di atti legislativi e non possono prevalere sui Regolamenti europei (come il Regolamento Frontex n.656 del 2014) e sulle norme nazionali e internazionali che disciplinano le attività di ricerca e salvataggio (SAR) garantendo i diritti fondamentali della persona, prima che le attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement).

Nell’ordinanza adottata dal Consiglio di Stato lo scorso 4 luglio si fa riferimento a nuovi compiti della Guardia di finanza, presumibilmente in acque internazionali, che sarebbe “incaricata di supportare le autorità tunisine” comprese “le attività di addestramento degli equipaggi in mare, la consulenza, l’assistenza la formazione e il tutoraggio del personale per una corretta ed efficiente gestione della flotta”.  Per il Consiglio di Stato l’intervento della Guardia di finanza servirà “all’innalzamento dei livelli di tutela e salvaguardia dei migranti in mare, tanto più necessari dopo l’istituzione della zona SAR (ricerca e soccorso ) della Tunisia”.

Non è ancora chiaro quale sarà effettivamente il ruolo della Guardia di finanza, evocato in questa ultima decisione del Consiglio di Stato, ma si potrebbero configurare gravi responsabilità nei respingimenti collettivi in mare, analoghe a quelle che, dopo respingimenti collettivi operati in acque internazionali dalla stessa Guardia di finanza nel 2009, portarono nel 2012 alla condanna dell’Italia (caso Hirsi) da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo.

Gli Stati membri non possono richiamarsi ad accordi di cooperazione che consentono alla guardia costiera di un paese terzo operazioni di salvataggio che si risolvono in deportazioni collettive su delega e non possono esigere dai comandanti delle navi civili di restare in stand-by in acque internazionali senza procedere con immediatezza ai soccorsi. La Tunisia, come le diverse autorità libiche, violano gli obblighi in materia di diritto del mare e dei rifugiati quando sbarcano le persone soccorse in luoghi che per queste stesse persone non sono sicuri. Perchè parliamo di persone in carne ed ossa, non di numeri da esibire come bilancio elettorale.

La cooperazione operativa con i paesi terzi da parte degli Stati membri dell’UE, con il contrasto, anche in via amministrativa, delle attività di ricerca e salvataggio operate dalle navi del soccorso civile, può essere qualificata come complicità nella violazione del divieto di respingimenti collettivi, di trattamenti inumani o degradanti e del diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, quando è accertato, come costituisce ormai fatto notorio, che le autorità marittime di paesi terzi, come Libia e Tunisia riporteranno le persone soccorse (ma sarebbe meglio dire: intercettate) in alto mare, in porti che non possono essere definiti per tutti i naufraghi come place of safety (Pos), dove la maggior parte di loro sono esposti a gravi violazioni dei diritti umani, persecuzioni o respingimenti a catena. Inoltre gli stessi Stati europei, e l’agenzia Frontex, a seguito di attività di cooperazione operativa, come la formazione, l’assistenza tecnica, e la fornitura di mezzi navali, saranno complici delle violazioni del diritto al soccorso e del principio di non refoulement. Sotto questo profilo, anche nei rapporti tra Italia e Tunisia potrebbero configurarsi gli stessi elementi di responsabilità penale internazionale individuati nei rapporti tra Italia ed autorità libiche. Nella passata legislatura, il Parlamento europeo ha espresso un fermo richiamo alla Commissione perchè la stessa Commissione europea prendesse atto della violazione dello stato di diritto (rule of law) in Tunisia, a fronte delle espulsioni collettive illegali via terra e delle intercettazioni violente in alto mare, operate dalla polizia e dalla guardia costiera tunisina.

L’Unione Europea, la nuova Commissione, il Parlamento europeo, dovranno rivedere tutti i risvolti del Memorandun UE-Tunisia e sospendere i trasferimenti di attrezzature e risorse finanziarie a Tunisi, sino a quando il governo tunisino non riconosca effettivamente i diritti fondamentali della persona, e ripristini lo “Stato di diritto” e le garanzie democratiche in favore degli oppositori e di tutte le persone migranti perseguitate da quello che ormai, malgrado le imminenti elezioni, può già definirsi come il regime di Saied.

pubblicato anche su A-dif.org