Per quanto l’espressionismo astratto abbia affascinato intere generazioni, essendo capace di trasmettere armonia e dinamicità e allo stesso tempo spensieratezza e angoscia con un intenso lavoro sul bilanciamento dei colori, fin dalla sua nascita è sempre stato accusato di essere un’arte disinteressata. Nonostante fosse un movimento controcorrente, composto da artisti scandalosi e per niente facili da comprendere, l’espressionismo è stato più volte criticato come un’operazione di “dissenso controllato”: se da un lato sbeffeggiava le certezze estetiche della società borghese, dall’altro divenne uno strumento di propaganda nel contesto della Guerra Fredda per promuovere un’immagine positiva del blocco occidentale con esempi di arte innocua e creatività depoliticizzata.

Dagli anni Cinquanta e Sessanta, la CIA cavalcò l’arte dei grandi maestri dell’Espressionismo astratto come Jackson Pollock, Robert Motherwell, Willem de Kooning, Mark Rothko, per oscurare la caccia alle streghe scatenata da McCarthy e la violazione della libertà d’espressione negli USA e per riabilitare l’immagine della società liberale americana. Donald Jameson, ex funzionario della CIA, fu il primo ad ammettere pubblicamente che il sostegno agli artisti espressionisti rientrava nella politica del “long leash”[1] al fine di mostrare la creatività e la vitalità spirituale, artistica e culturale della società capitalistica contro il “grigiore” dell’Unione Sovietica[2]. L’obiettivo dell’intelligence USA era a doppio taglio: sedurre le menti lontane dalla borghesia degli anni della Guerra Fredda per riavvicinarle al sistema stesso[3][4].

D’altronde l’espressionismo era facilmente strumentalizzabile, perché se da un lato si prendeva gioco dei canoni borghesi, dall’altro esprimeva una “trasgressione” depoliticizzata, diventando di fatto un contenuto adatto a ogni contenitore. Eppure, sebbene la storia dell’espressionismo e la sua strumentalizzazione permettessero di cavalcare il suo apolitico disinteresse, oggi possiamo trovare delle eccezioni, rappresentate da artisti che hanno riempito di contenuto politico la loro creatività espressionista, sferzando non solo colpi alla società borghese, ma anche a tutto il sistema, esprimendo una forte critica radicale alla società dei consumi e rendendo impossibile la strumentalizzazione della loro arte.

Stiamo parlando di Silvano GGM Amati, artista espressionista veronese che terrà la sua prima mostra – dal 6 al 21 luglio 2024 – al Mo.Ca di Brescia dal titolo “Segni e resti” curata da Sesart’s, la prima casa d’aste online d’Italia.

Amati è l’exemplum dell’artista sognatore, autocritico e sensibile tanto ai temi sociali e politici, quanto a quelli introspettivi ed esistenziali. Nella sua lunga vita artistica, lontana dalla mondanità e dalla visibilità, Amati ha partecipato a diverse mostre collettive senza mai organizzarne una sua e senza mai proporre una sua biografia: un modo per ribadire il suo disinteresse ai formalismi, alle prassi e a tutti quei clichè a cui la nostra società attribuisce molta importanza, dando banalmente adito ad un’apparenza priva di originalità. È proprio qui che si inserisce il lavoro della casa d’aste Sesart’s che, attraverso la figura della curatrice Giulia Tebaldi, ha potuto organizzare la sua prima mostra monografica con un serio lavoro di progettazione del profilo artistico di Amati, di catalogazione delle sue opere e di ricostruzione biografica.

L’artista propone alcune sue opere con un “periodo di nascita”, ossia l’anno di inizio e di fine della creazione e non una sola data effettiva: ciò lascia intendere che la sua arte non è un “ordine preciso di lavoro” pensato per il cliente, ma esclusivamente l’espressione di quello che lui vuole trasmettere in quell’opera, il cui messaggio richiede non solo estro, ma anche la condizione mentale ed emotiva per poterlo trasmettere.

Amati è un esploratore di linguaggio, ricco di conoscenze, intuizioni e senso critico, che con il proprio lavoro è riuscito a trovare una chiave per tradurre pensieri in opere in maniera unica e tagliente. Come ha scritto Giulia Tebaldi: “(Amati) sfogandosi nella sua arte permette a chi lo contempla di trovare ogni forma di commozione, dal pianto gioioso al graffio colmo di dolore”.

Si distingue per essere un grande critico e oppositore del consumismo in tutte le sue forme e lo fa da pittore che mostra genuinità delle sue figure contro le “icone alla moda” del momento.

Partendo da questa riflessione si scaglia fortemente contro l’arte contemporanea in quanto prodotto della società dei consumi, fondata sulla riproduzione e la replicazione standardizzata in serie. Molto vicino ad Amati in questo pensiero è l’artista francese Franck Lepage, che addirittura denuncia l’arte contemporanea come una “truffa”, o meglio arte che non conta nulla. Nella migliore delle ipotesi, l’arte contemporanea è un “paradiso fiscale” che realizza tutti i sogni del capitalismo creando valore senza lavoro, e per di più con il sostegno dello Stato; nel peggiore dei casi, sarebbe un’arma della propaganda capitalista, generalizzando la “trasgressione” per ignorare invece il significato della “sovversione”.

L’avversione di Amati verso la società dei consumi avviene con una critica radicale alla metafisica occidentale, appassionandosi al pensiero del filosofo francese Jacques Derrida. Grazie a queste letture, Amati scopre il significato delle “architracce”, ovvero quell’istinto pre-esistente in ogni cosa che si può definire come l’istinto dell’essere umano per la procreazione o addirittura l’istinto di un nascituro nel cercare immediatamente il seno della madre. Secondo Amati, l’architraccia è la “traccia originaria” di cui non conosciamo l’origine e il compito dell’artista è cercarla. Nasce proprio da qui l’idea di chiamare la mostra “segni e resti”, al fine di ricordare la ricerca dei segni scalfiti nel passato anteriore all’esistenza e di ciò che rimane di essa.

È proprio da questo concetto che Amati introduce il tema della relazione uomo-donna, sostenendo che l’uomo, pur sforzandosi, vede sempre la donna come oggetto utile a soddisfare le sue necessità e i suoi istinti primordiali, carnali e sessuali. L’opera “La Macelleria di Silvano” del 2019, che rappresenta animali appesi in vetrina pronti per essere scelti e consumati, è l’archetipo dei corpi delle donne nella società dei consumi: corpi standardizzati esposti in vetrina, che si scelgono in base alla qualità della carne. Amati sottolinea l’ipocrisia che si cela dietro la società odierna quando si trova a sublimare il ruolo della donna per nasconderne l’oggettivazione maschile.

Tra i soggetti prediletti non potevano dunque mancare anche le prostitute, che vengono raffigurate riprendendo le locandine delle “case chiuse” di inizio Novecento e altre immagini di nudo di donna. Secondo Amati la rappresentazione di quelle locandine è paragonabile alle sculture greche riprodotte sui piatti di ceramica proprio perché vere e significative del nostro tempo.

L’arte di Amati, in quanto arte impegnata, si focalizza soprattutto sui perseguitati, sugli abbandonati, sui migranti in fuga, sulla condizione attuale degli operai e su tutti gli ultimi, vittime di questa società materialista, capitalista, consumista e discriminatoria che, come ha generato la deportazione degli ebrei privandoli di ogni diritto, oggi continua nello sfruttamento lavorativo su larga scala e nella tendenza a creare icone e modelli distrutti ed auto-distruttivi da inseguire. Secondo Amati sono proprio i resilienti che, decidendo di ribellarsi a queste scorrettezze, attuano le rivoluzioni.

La sua arte è così profondamente derridiana da sfidare, con la sua cruda durezza, il sistema dei media opponendosi diametralmente alla logica dei social media: se le sue opere fanno entrare in una storia e in un ragionamento, i social ci abituano a vedere disgrazie, facendoci perdere la capacità di provare una risonanza emotiva e senza concepirle seriamente come fatti reali.

Così facendo l’artista veronese riabilita lo stile estetico espressionista per compiere una critica totale al sistema-mondo: sgancia l’espressionismo dal suo storico disinteresse per il mondo e lo rende “impegnato”, usandolo come strumento non di “mera trasgressione”, ma di “autentica sovversione”.

[1] Letteralmente “guinzaglio lungo”, ovvero concedere una certa libertà e autonomia

[2] Cia mecenate dell’Espressionismo astratto. La prima conferma da un ex funzionario

[3] https://daily.jstor.org/was-modern-art-really-a-cia-psy-op/

[4] https://www.bbc.com/culture/article/20161004-was-modern-art-a-weapon-of-the-cia