Nel centenario della nascita di Danilo Dolci, stanno svolgendosi tra Palermo e Trappeto, molteplici iniziative artistiche e di studio, anche per volontà dei figli Amico, responsabile del Cesie (Centro Studi e Iniziative Europeo) e del Centro di Sviluppo Creativo Danilo Dolci, e Daniela, che ha lanciato dalla Svizzera un crowdfunding per la ristrutturazione del Borgo di Dio a Trappeto, dove il “Gandhi della Sicilia” aveva realizzato un luogo di convivenza, co-educazione, dialogo e resistenza contro le violenze politico-mafiose, a partire dagli anni Sessanta.
Lo scorso mercoledì, 26 giugno, si è svolto nell’Aula Magna dello Steri (palazzo trecentesco che oggi ospita il rettorato universitario) un convegno dal titolo “Danilo Dolci tra sogno nonviolento e azione politica: archivio storico e biografie”.
Pierluigi Basile ha introdotto le nostre riflessioni narrandoci del suo lavoro di ricostruzione e riordino degli archivi dolciani, al momento ospitati in una scuola di Partinico, ma destinati a tornare al Borgo di Dio, una volta restaurato. Si tratta di agende autografe, fotografie, appunti sparsi, disegni dei bambini della scuola di Mirto, ciclostilati, fino al dattiloscritto dell’ultimo libro incompiuto e non ancora edito. Materiale preziosissimo non solo – e non tanto – dal punto di vista filologico quanto sotto il profilo etico e politico.
Ha proseguito Giuseppe Barone, allievo e collaboratore di Dolci e vicepresidente del Centro per lo Sviluppo Creativo, curatore di una complessa bibliografia del e sul Maestro che stiamo ricordando.
Ha citato un articolo di Goffredo Fofi del 1951 sui rapporti fra Dolci e Pasolini, che si raffreddarono nel ’68, quando di fronte alla rivoluzione nonviolenta – come l’aveva definita Capitini – il poeta/regista/giornalista, lui friulano, espresse sfiducia sulla improbabile consapevolezza del mondo contadino che andava scomparendo, mentre l’architetto/sociologo/pedagogista (ma per entrambi ogni etichetta è insufficiente), ormai radicato al Sud, continuava a sostenere che tutti dovessero e potessero partecipare al cambiamento, purché si lavorasse all’educazione.
Barone avverte infine come, nonostante i 36 libri usciti su Dolci, ci siano ancora da curare i numerosi carteggi con personaggi autorevoli di tutto il mondo: nell’epistolario compaiono azionisti, poeti, pedagoghi, contributi preziosi non certo (o non solo) per completezza epistemologica, ma in quanto spunti e incentivi di azione politica dal basso.
Amico Dolci, con la sua consueta e sincerissima postura di figlio/testimone/erede, affettivamente coinvolto ma anche lucidissimo custode di pratiche pedagogiche accurate e in evoluzione, ha sottolineato come la maieutica o è reciproca o non esiste. Così accade anche con la poesia, per esempio ne “il limone lunare” o ne “Il dio delle zecche”; così accade nella Radio Libera 1970 (prima in Italia), la “radio dei poveri cristi” che ha dato voce ai terremotati del Belice per meno di due giorni, prima di essere sgombrata dalla polizia.
E infine la maieutica reciproca è indispensabile alla musica: non si può fare musica d’insieme se non ci si ascolta reciprocamente; si può fare a meno di un direttore d’orchestra (purché l’organico non sia vastissimo), ma non si può prescindere dall’esigenza di guardarsi, ascoltarsi, capirsi, in un tutto simultaneo.
Gianna Cappello, pedagogista dell’Università di Palermo, propone poi una curvatura del discorso: l’educazione, specie negli intendimenti di Dolci, può essere considerata come un bene comune, al pari di terra, acqua o competenze digitali. Una sfida alla visione binaria Stato/privato, aperta all’utilizzazione collettiva attraverso pratiche di dialogo e di co-costruzione delle regole. La lotta per la diga sullo Jato di Dolci potrebbe collocarsi in questa prospettiva.
La pratica del “commoning” (“ascoltare i contadini” diceva Dolci) è una forma di democrazia diretta secondo rapporti orizzontali di equità, di sostenibilità, di distribuzione inclusiva e non perequata, alternativi alla logica del profitto.
La battaglia per la diga sullo Jato nasce dall’agire comunicativo e dall’ascolto attivo, che prevede anche un confronto con lo Stato e con il mercato, ma non subalterno. C’è una micro-politica nata da un processo co-educativo che muove da una posizione di autonomia.
Ma anche l’educazione può configurarsi come bene comune: basti guardare ai grupos de crianza compartida, gruppi di cura condivisa autogestiti per i bimbi più piccoli a Madrid e Barcellona, o all’Home Schooling negli USA, ci informa Cappello.
Certo qualche dubbio ci resta sulla possibilità di conciliare Stato, Privato e Comune, mentre invece verrebbe da interrogarsi sulla possibilità di costruire un bene comune che non sia solo l’ortus conclusus dei giardinetti urbani, uno spazio minimo che nulla altera del sistema multinazionale di manipolazione e distribuzione delle risorse e devastazione del pianeta.
Il docente di sociologia dell’UniPa Fabio Massimo Lo Verde, ci propone, di seguito, di guardare alla maieutica dolciana come a un ponte fra arte e scienze, tra un metodo rigoroso che consente l’ascolto reciproco e un linguaggio condiviso e la dimensione creativa dell’arte. Ipotizza che la formazione di architetto di Dolci gli abbia consentito di elevare questo ponte, attraverso disvelamento e creatività, linguaggio come flusso empatico e dialogo. In Inchiesta a Palermo, per esempio, l’approccio maieutico gli avrebbe consentito di rendere conciliabili narrazioni inconciliabili, di costruire ponti appunto, attraverso “una poesia logica o una logica poetica”.
Pasquale Beneduce, Storico delle Istituzioni dell’Università di Cassino, si propone e ci propone di restituire Dolci al presente ripercorrendo i processi agli intellettuali nel dopoguerra, ricostruendo la complessità dello sguardo e delle diverse memorie. Rivisita così le vicende legali legate allo “sciopero alla rovescia” del 1956 (l’intervento dei braccianti sulla trazzera privata abbandonata e la presunta infrazione dell’art. 4 della Costituzione), evidenziando l’attualità delle pratiche di disobbedienza civile nonviolenta.
Richiama poi alla nostra attenzione come Dolci, insieme a Lanza del Vasto, Bianciardi, Pratolini, Vittorini e Silone, abbia disertato il canone ufficiale degli autori italiani, proprio mentre Norberto Bobbio scriveva la prefazione di Banditi a Partinico ed Ernesto De Martino con Carlo Levi condividevano la sua polemica permanente col presente: anche fotografia e pittura stavano diventando documenti di denuncia imprescindibili.
Inchiesta a Palermo, condannato dai docenti imparruccati degli atenei, per una campionatura ritenuta troppo ristretta e per l’intromissione di voci narranti soggettive (ma i racconti erano deliberati shock narrativi che dovevano rafforzare le storie), questa ricerca sul campo che ci fa indignare e commuovere ancora oggi, vede Dolci encomiabile voce fuori campo, che si mette in disparte per raccontare il vero, che è capace di cogliere “il terzo suono di Tartini”, per tornare alla metafora della musica, che lascia crescere e vibrare gli armonici del coro dei “poveri cristi” in consonanza, una volta tanto.
L’ultimo intervento, di Paolo Varvaro, docente di Storia contemporanea ed economica del welfare all’Università di Napoli, ha ricordato il convegno di Palma di Montechiaro del 1960, il cui manifesto consisteva in un dipinto di Carlo Levi, e dove Dolci intervenne mentre stava scrivendo “Spreco”, insistendo sulla differenza fra sciupio delle risorse pubbliche e valorizzazione della pianificazione dal basso. La Cassa per il Mezzogiorno stava interessandosi al progetto della diga sullo Jato e Dolci, rifacendosi al sindacalista Di Vittorio, guardava al modello del Materano con la presenza di Olivetti e ribadiva la necessità della formazione tecnico-culturale dei giovani e degli investimenti nell’educazione.
Sono passati decenni, le prospettive ariose dell’economia degli Anni Sessanta sono ormai storia passata, il costrutto cooperativo dal basso sostenuto dalla spesa pubblica che allora sembrava possibile è stravolto dalla globalizzazione finanziaria, eppure le linee guida indicateci da Dolci possono ancora fungere da traccia per chi non voglia arrendersi all’iniquità del capitalismo imperialista.