Mercoledì 13 giugno, presso l’aula Blu Cobalto dell’Accademia delle Belle Arti di Palermo ai Cantieri culturali alla Zisa, si è tenuta la lezione aperta del prof. Ghassan Abulaban, pittore palestinese nato a Bethlehem e oggi residente ad Amman, in Giordania, dove insegna pittura e disegno alla University of Jordan occupandosi anche di arteterapia.

Già la sua storia personale racconta la vicenda degli ultimi sessant’anni del suo popolo.
Infatti, come tanti altri artisti di cui ha presentato le opere nel corso del suo intervento, anche lui, ad appena tre anni, è stato un rifugiato, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967.
E da artista senza Stato, almeno senza uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale, partecipa nel 2022 alla Biennale di Venezia.

Dalla prof. Malleo apprendiamo che la lezione è merito del progetto di mobilità tra l’Accademia di Palermo e l’Università della Giordania dove anche studenti e studentesse palermitane potranno recarsi come allievi e allieve del nostro.
Il resto della storia la raccontano le immagini che scorrono sullo schermo nelle opere di pittori e pittrici a partire dal titolo della lezione: “La pittura contemporanea in Palestina e Giordania: origini e identità”.

Dalle influenze dell’arte bizantina a quella del Rinascimento italiano, la pittura del ‘900 in Palestina e Giordania recupera il simbolismo e i contenuti della cultura popolare palestinese come reazione alla catastrofe della Nakba, nel 1948, con la fondazione dello Stato di Israele, lo scoppio della prima guerra arabo-israeliana e l’esodo forzato dei palestinesi dalle loro case e dalla loro terra.

Così i colori esplodono nelle opere pittoriche degli artisti del periodo dei Pionieri che, in una terra sotto occupazione, fanno dell’arte un grido di dolore come riappropriazione dell’identità di un popolo, necessaria alla sua sopravvivenza.
Si susseguono le opere e i nomi di uomini e donne che attraverso forme e colori recuperano le immagini della quotidianità, del dolore, dell’esilio e raccontano la nostalgia per la vita prima dell’occupazione, con i campi da coltivare, gli abiti della festa da indossare, il cibo posato sulla tavola. Ci sono la terra e i suoi materiali portati fuori dalle zone occupate dai rifugiati che diventano in alcuni casi gli unici utilizzati per realizzare le proprie opere, nel rifiuto di acquistarne da Israele.

Anche le opere più astratte degli e delle artiste dei periodi seguenti, degli Esploratori e delle Nuove Direzioni, ricordano il concreto di una vita dimenticata nella costruzione geometrica dello spazio, nella sua frammentazione dove i simboli, riconosciuti, ricostruiscono un’unica identità.

In esilio, l’arte della diaspora incontra le realtà artistiche del mondo ed ecco che il riferimento è alle influenze del vicino Medio Oriente così come all’espressionismo tedesco e non solo, all’arte italiana, dai romantici fino alle sue avanguardie, a quella russa e spagnola, all’arte di tutte quelle case in cui gli esuli palestinesi hanno trovato accoglienza e occasione di studio e riconoscimento.

Scorrono le immagini e scorre pure il tempo ma, a differenza di studenti e studentesse, io non ho altre lezioni da seguire, così resto con i pochi superstiti, affascinata dalle opere del nostro relatore e dalle sue parole. Tra le pennellate di colore dei ritratti ad acquerello e la costruzione geometria dello spazio, in cui la connessione tra astratto e figurativo in dissolvenza dipinge la sua poetica di personale memoria, torna il paragone con la poesia che rivela solo alla fine la sua costruzione progressiva aprendosi alla comprensione.

E ancora la riflessione si fa più politica, nella domanda qui meno che mai retorica: Quale identità rappresenta e costruisce l’arte?
In Palestina l’arte si fa difesa della memoria come atto di speranza. È una dichiarazione di resistenza a chi, privandotene, ti controlla. Se l’occupazione tenta di cancellare la memoria per rifondare il nuovo come se prima non ci fosse stato niente, allora l’arte difende la memoria in continua rigenerazione. In tempo di demolizioni e distruzione la produzione artistica nella sua diversità costruisce un muro comune. Non a caso nel suo intervento Abulaban usa senza parsimonia il pronome noi e, parlando di sé, conclude dicendoci che come artista palestinese il suo contributo a questa costruzione deve essere quello di essere un bravo artista.

L’applauso finale, nonostante si sia fatto tardi, e il suo soffermarsi ancora a parlare con chi, come me, vuole sapere e condividere riflessioni, ci testimoniano, se non lo avessero già fatto abbondantemente le sue parole e le sue opere, che sì, è davvero bravo.