A due anni dall’inizio della guerra russo-ucraina, il libro Corpi e parole di donne per la pace. L’esperienza del Presidio di Palermo, curato da Mariella Pasinati ed edito per i tipi di Navarra, ci offre la sintesi di un’azione testimoniale altra rispetto a quanto ci viene propinato dalla narrazione massmediatica.

Lo sguardo e le voci delle donne riguardo alla guerra è ben diverso: la realtà tragica della guerra è ponderata da noi donne nei suoi diversi piani di scandalo epocale che investono i vertici europei e che in Italia corrispondono alla gravissima violazione dell’art.11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Il 6 giugno scorso, in occasione della presentazione del libro che racconta l’esperienza condivisa da parte di diverse associazioni femminili e presenze di varia matrice, riunite dal bisogno di condividere il dissenso verso la guerra, ho voluto sottolineare l’impegno del Presidio rispetto alla propaganda giustificazionista del supporto armato, nel tentativo di ribaltarne la prospettiva e operare una conversione di sguardo attraverso la cultura della pace.

Occorre infatti sottolineare che la messa in gioco di noi donne per affermare il nostro rifiuto della guerra non equivale ad una mera contrapposizione pacifista, cosa che avremmo potuto fare e che in effetti abbiamo fatto, unendoci a varie manifestazioni di protesta, ma il Presidio, consistente essenzialmente nella presenza dei nostri corpi parlanti, è piuttosto una espressione di forte portata simbolica per rappresentare un piano di realtà del tutto alternativo alla scena che si sta imponendo alla storia per la grave deriva
di ordine morale: permettere ancora la devastazione della vita
di ordine culturale: ignorare le vie di risoluzione pacifica dei conflitti
di ordine politico: pochi decisori, in Paesi con governi democraticamente eletti, hanno scelto e stanno scegliendo il destino di intere popolazioni.

In questi due anni, con la nostra presenza e la diffusione dei “volantini” riportati nel libro ora pubblicato, abbiamo provato a sostenere la logica della pace, ben più solida di quella della guerra.

Il messaggio che intendiamo trasmettere non è un semplice appello alla pace, ma una vera e propria denuncia etica delle scelte politiche a sostegno della guerra. Per definizione la politica o è finalizzata alla promozione della vita, o non è. Nei sistemi democratici vige l’obbligo, da parte di chi governa, di tutelare la vita sempre, in ogni stadio e manifestazione. La scelta politica della guerra è una palese contraddizione. Il senso della forza argomentativa di queste ovvie considerazioni si potrebbe sintetizzare nella frase che Mariella Pasinati riporta da Cassandra, di Christa Wolf: «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere».

Proviamo, esemplificativamente, nella direzione di tale intento di destrutturazione ermeneutica, a liberare tre parole dalla trappola della narrazione bellicista: compromesso, patriottismo, solidarietà.
1. La guerra viene invocata come obbligo morale del rifiuto del compromesso; in realtà la scelta della via armata costituisce l’accettazione del più basso dei compromessi: quello della messa in conto della perdita di numerose vite umane, di soldati e di civili, figli e figlie della Nazione che si vorrebbe difendere; per non parlare della distruzione di strutture essenziali, costate ingenti risorse della comunità.

L’obiezione di coscienza alla guerra, nelle democrazie mature non va dichiarata perché è implicita, strettamente correlata alla forma istituzionale finalizzata al bene e al progresso della singola persona e dunque della società. Occorre smascherare l’insinuante cultura del disonore per la scelta del ripudio delle armi e ribadire l’etica dell’onore del compromesso diplomatico, in nome della vita reale che ha sempre il primato su tutto.

2. La guerra viene giustificata dalla retorica del patriottismo, dell’obbligo morale di difendere la Patria minacciata. Tale retorica è un’anacronistica mistificazione di matrice nazionalista. La “patria” è piuttosto la nostra ricchezza costituita dal nostro patrimonio culturale, artistico, storico, umano che può essere difeso solo attraverso la coesistenza pacifica con le altre nazioni. La vera minaccia contro la patria è l’inimicizia con altri popoli. L’appello alla difesa armata della patria, è indicativo dei sistemi nei quali chi è al potere esercita l’arbitrio di disporre della vita altrui.

Tale cosificazione dell’essere umano è proprio dei totalitarismi nei quali la vita viene “concessa” al singolo che, in cambio, ha l’obbligo di fedeltà obbediente, talvolta convintamente espressa nella totale autoabnegazione fino all’offerta sacrificale. Nulla di tutto questo può essere accettato nelle attuali democrazie, che, tuttavia, si sono allineate a tali logiche aberranti.

3. Abbiamo sentito e continuiamo a sentire ripetere dai rappresentanti delle istituzioni europee, riguardo alla guerra Russo-Ucraina, l’obbligo di solidarietà al Paese aggredito, la fedeltà a sostenere la difesa armata della vittima “fino alla fine”. Ci domandiamo quale sia il significato da attribuire alla parola “fine”. Fine del conflitto per vittoria militare? Fino al sacrificio dell’ultimo soldato, come pretendevano Hitler e Stalin? O si intende evocare l’ideale di “fedeltà” con un intento retorico fuorviante, ammantandolo della pseudo-morale del sostegno alla difesa per nascondere lo scopo di una guerra per procura?

Attualmente l’unica solidarietà possibile è quella della difesa dalle armi non con le armi. Come afferma la Costituzione dell’UNESCO, la pace «deve essere fondata sulla solidarietà intellettuale e morale dell’umanità». E invece si è scelta la via del boicottaggio, dell’ostracismo e dell’inimicizia, come se il popolo russo non fosse vittima a sua volta.

Difesa sensata attraverso solidarietà feconda, sarebbe stata la scelta di serrare gli spazi di condivisione internazionale su tutti i piani: cultura, sport, scienza, economia, creando una risposta di solidarietà tra i popoli contro l’arbitrio militarista dei potenti. Del resto, è evidente che il potenziale distruttivo di un confronto armato è destinato ineluttabilmente ad una escalation, come i fatti fin qui dimostrano. Oltre al livello distruttivo delle armi, si innalza, come ulteriore conseguenza rovinosa, la portata dell’odio tra le parti, destinata ad un ulteriore processo di distruzione dell’umano.

L’unica “fine” che si può prevedere come esito di considerazione razionale, piuttosto che di velleitaria propaganda bellicista, è quella della distruzione totale, paventata da Lanza del Vasto che già negli anni sessanta aveva chiaramente individuato la “trappola logica”, l’“inganno del Diavolo” nel ritenere possibile attribuire alla potenza degli arsenali la garanzia di una chance di sopraffazione del nemico, almeno in termini di dissuasione e di equilibrio del terrore.

Concludo con le parole della scrittrice Vera Brittain, la quale, avendo vissuto la disillusione della propaganda militarista che portò all’immane tragedia della Grande Guerra, assunse posizioni pacifiste provando a denunciare le responsabilità dei governi per le scelte e le omissioni che lasciavano intravedere la convergenza verso un nuovo rischio di guerra mondiale rispetto al quale indicava concrete alternative al riarmo:

«Non mi sorprende la solita argomentazione che tutti questi espedienti sono stati già tentati senza risultato. Non sono stati tentati in piena onestà, con un sincero desiderio del loro successo e il pericolo che essi potrebbero evitare non è mai stato così imminente né concepito su scala tanto vasta, ovvero di annientamento reciproco. Non credo che la conciliazione, se onestamente ricercata, fallirebbe. In ogni caso, sono sicura che nessun’altra politica potrebbe avere successo nel portare ad una pace sicura e durevole» (Perché sono pacifista, 1937).