Inaugurate il 19 aprile le monumentali elezioni in India si sono concluse il 1° giugno e per il partito di Narendra Modi, il Bharata Janata Party, i risultati sono stati parecchio inferiori alle aspettative. A cominciare dall’affluenza alle urne: già dalle prime ore di ieri i conteggi confermavano un notevole assenteismo. Rispetto a quei circa 950 milioni di aventi diritto, che la propaganda elettorale avrebbe voluto entusiasticamente partecipi per la Festa, anzi vero e proprio Festival, Elettorale, ai seggi si sono presentati in 640 milioni, un dato che gli analisti pro-Modi avevano già registrato con una certa preoccupazione verso la metà di aprile (ne avevamo riferito qui).

Flessione in buona parte imputabile senz’altro all’ondata di caldo, che nelle ultime settimane ha sfiorato in alcune zone i 50 gradi, provocando tra l’altro una trentina di decessi fra gli incaricati alle procedure elettorali – ma senz’altro sintomo di una certa disaffezione, soprattutto negli stati del nord India e in particolare tra i giovani. La disoccupazione giovanile è infatti uno dei problemi principali per l’India nonostante una crescita del PIL che sfiora il 7% e che la posiziona al quinto posto tra le potenze economiche a livello mondiale!

E più che mai in sofferenza resta l’India delle campagne, quell’immensa popolazione di agricoltori che è stata più volte protagonista di mobilitazioni contro le politiche liberiste del governo Modi. Non a caso le perdite maggiori per il BJP si sono verificate negli stati del Punjab, dell’Uttar Pradesh e dell’Harayana, le cui popolazioni rurali sono state costantemente in prima linea durante quel lungo sit-in intorno a Delhi durato un intero anno tra il 2020 e il 2021.

E dunque, nonostante una campagna come non mai giocata sul peggior suprematismo indù, e tutta centrata sul culto della personalità e sull’indubbia popolarità del Vishwaguru (leader universale, come ormai da tempo ama proclamarsi Narendra Modi), la grancassa dei pronostici ha fatto clamorosamente cilecca. Erano ben 400 i seggi che il BJP dichiarava di potersi assicurare a inizio elezioni: una maggioranza schiacciante, che gli avrebbe consentito di fare e disfare qualsiasi cosa, a cominciare dalla Costituzione. Alla fine dei conteggi, che si sono conclusi ieri quando in India era già notte inoltrata, il totale dei voti per il BJP restava fermo a 240, un risultato parecchio inferiore al target sbandierato come certo, e in notevole ribasso anche rispetto ai risultati elettorali del 2019, quando con 303 seggi Modi aveva sgominato l’avversario Rahul Gandhi.

Il che significa che pur in testa nei conteggi, il BJP da solo non ha i numeri per governare. Per superare la soglia dei 272 (il minimo sufficiente per avere la maggioranza al Parlamento indiano che conta in totale 543 seggi) dovrà ricorrere a un governo di coalizione: situazione facilissimamente risolvibile, ma ben diversa da quel consenso plebiscitario su cui tutti (in primis i mercati) avevano scommesso.

E infatti il tonfo più spettacolare si è registrato alla Sensex, la borsa di Mumbai: che nella giornata di lunedì, contando su exit polls che promettevano una vittoria senza precedenti per Narendra Modi ha avuto un rally del 3%, ma poi ha sofferto ieri una perdita del 6%, man mano che i risultati dimostravano tutt’altro.

Sul fronte opposto Rahul Gandhi, a capo del Partito del Congresso, e da sempre dato per perdente, ha registrato invece il doppio dei seggi rispetto alle elezioni del 2019: gran festa ieri sera per lui, per la sorella Priyanka Gandhi da sempre al suo fianco, e anche per la madre Sonia in forma smagliante. Risultati che senz’altro sono il frutto di quelle due epiche marce, dal sud al nord dell’India un paio di anni fa, e da est all’ovest nei mesi precedenti queste elezioni, che non solo hanno rinnovato una tradizione (per così dire) di famiglia, ma hanno rappresentato per il subcontinente indiano, soprattutto per le comunità più povere e marginalizzate, una disponibilità di ascolto, una volontà di ricalarsi tra la gente e insomma un impegno, ben diverso dalla roboante retorica di Narendra Modi.

All’interno di quella coalizione che ha scelto di chiamarsi semplicemente INDIA (acronimo che sta per Indian National Development Inclusive Alliance), e forte dell’alleanza con il Samajwadi Party di impronta socialista ed espressione delle caste più basse, Rahul Gandhi sarà in grado di garantire una ben più solida opposizione rispetto allo scorso quinquennio, in relazione alle tante questioni sul tappeto.

Si è già detto della disoccupazione giovanile, della disaffezione in generale e del malcontento particolarmente acuto nelle campagne, persino nei popolosi stati del Maharashtra e dell’Uttar Pradesh, dove il BJP aveva raccolto significative maggioranze con le elezioni del 2014 e del 2019, che i conteggi di ieri non hanno confermato. Particolarmente significativa la perdita del BJP a Faizabad nello stato dell’Uttar Pradesh, che corrisponde alla località di Ayodhia, ovvero a quel tempio in onore del dio Ram la cui costruzione era stata il leit motiv del decennio di governo Modi, fino alla spettacolare inaugurazione nel gennaio di quest’anno, con cui ha di fatto lanciato la sua campagna elettorale.

Persino lì, in quello che era stato il teatro di uno show programmato in ogni gesto e dettaglio, per enfatizzare il mandato semi-divino del Vishwaguru Modi-ji, le urne non hanno risposto come il copione avrebbe voluto.

Si apre dunque per l’India uno scenario del tutto inaspettato fino a poche settimane fa. Era il 19 aprile, primo giorno di elezioni, quando raccontavamo della brutale repressione con cui le forze dell’ordine avevano risposto alle ennesime manifestazioni di protesta degli annadata (produttori di cibo) negli stati dell’Haryana e del Punjab. E solo sei settimane dopo eccoci a raccontare di questa risicata vittoria o vero e proprio smacco per Narendra Modi, grazie a una significativa presa di coscienza da parte dell’elettorato e grazie a un’indubbia vittoria della democrazia, nella democrazia più grande e complessa del pianeta. Zindabad!

 

 

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