Lo scorso aprile si era appreso di un documento proveniente dalla Centrale di Coordinamento della Guardia costiera italiana (IMRCC), secondo il quale, a partire da “tavoli tecnici interministeriali” che si sarebbero tenuti nel 2022, si stabilivano nuove regole di ingaggio per le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali che avrebbero limitato gli interventi immediati dei mezzi della stessa Guardia costiera al di fuori del limite delle acque territoriali (12 miglia dalla costa).
Il documento della Guardia costiera italiana, successivo di un mese alla strage di Cutro, richiamato il 29 maggio dalla trasmissione televisiva “Il Cavallo e la Torre”, nel quale si conferma la limitazione degli eventi SAR in acque internazionali ai casi più gravi di “distress”, solo quando sarebbe accertato un pericolo per la vita delle persone, è in contrasto con quanto previsto dal Piano Sar nazionale 2020, che richiama a sua volta le Convenzioni internazionali di diritto del mare, e il manuale internazionale IAMSAR che le riassume. Ricorre un evento SAR non solo nei casi di distress, ma anche nelle fasi di incertezza o di allerta che lo precedono. Dunque le autorità marittime non possono attendere che ricorra un grave e imminente pericolo per le persone per dichiarare un evento SAR, come si è verificato in diversi casi che hanno avuto un esito tragico.
La nozione di distress è stabilita dalla Convenzione SAR di Amburgo del 1979 (Annex, 1, para. 1.3.11) a) come “situazione in cui esiste la ragionevole certezza che una nave o una persona sono minacciate da un pericolo grave e imminente e necessitano di assistenza immediata”.
Questa nozione è ulteriormente specificata dal Regolamento europeo n.656 del 2014, secondo cui “per valutare se un natante si trovi in una fase di incertezza, allarme o pericolo, le unità partecipanti tengono in conto, e trasmettono al centro di coordinamento del soccorso competente, tutte le informazioni e osservazioni pertinenti, anche per quanto riguarda: i) l’esistenza di una richiesta di assistenza, anche se tale richiesta non è l’unico fattore per determinare l’esistenza di una situazione di pericolo; ii) la navigabilità del natante e la probabilità che questo non raggiunga la destinazione finale; iii) il numero di persone a bordo rispetto al tipo di natante e alle condizioni in cui si trova; iv) la disponibilità di scorte necessarie per raggiungere la costa, quali carburante, acqua e cibo; v) la presenza di un equipaggio qualificato e del comandante del natante; vi) l’esistenza e la funzionalità di dispositivi di sicurezza, apparecchiature di navigazione e comunicazione; vii) la presenza a bordo di persone che necessitano di assistenza medica urgente; viii) la presenza a bordo di persone decedute; ix) la presenza a bordo di donne in stato di gravidanza o di bambini; x) le condizioni e previsioni meteorologiche e marine.
In realtà, tutte le imbarcazioni che partono dalle coste turche, egiziane, libiche o tunisine, e che si trovano in acque internazionali, dunque a notevole distanza dalla costa, sono da considerare in situazione di distress (pericolo grave ed attuale) anche se procedono a motore verso le coste italiane. Lo conferma la giurisprudenza nei numerosi casi nei quali ha archiviato procedimenti penali contro le ONG.
Se ricorre una situazione di distress in alto mare il primo centro di coordinamento che ne sia informato deve assumere decisioni operative immediate ed il comandante di qualsiasi nave è comunque obbligato ad intervenire con la massima rapidità, anche senza attendere indicazione da parte delle “competenti” autorità marittime o politiche, che non possono restare in silenzio, o delegare ad altri le proprie responsabilità, escludendo a priori una situazione di distress.
In base all’art. 12 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificato nel 2002 dalla legge Bossi-Fini, al comma 9 bis e seguenti si prevedeva che (art. 9-quinquies) “le modalità di intervento delle navi della Marina militare nonché quelle di raccordo con le attività svolte dalle altre unità navali in servizio di polizia sono definite con decreto interministeriale dei Ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti”.
Veniva quindi adottato il decreto interministeriale del 14 luglio 2003 (pubblicato sulla G.U. Serie generale n. 220 del 22 settembre 2003) che dettava le regole di comportamento per gli assetti aero-navali della Marina militare, delle Capitanerie di Porto e delle Forze di Polizia impegnate nelle attività di controllo delle frontiere marittime, stabilendo che “l’azione di contrasto deve essere sempre improntata alla salvaguardia della vita umana e al rispetto della dignità della persona» (art. 7, co. 1)”.
Le disposizioni impartite dai tavoli tecnici interministeriali, dunque dai vertici politici dei ministeri dell’interno e delle infrastrutture, che ne sono i principali partecipanti, si basano da anni sulla distinzione tra eventi di soccorso ed eventi di immigrazione illegale (o eventi migratori), che costituisce l’ennesima formula magica, usata spesso in contrasto con le fonti normative interne, europee ed internazionali, che fissano regole precise per valutare le situazioni di pericolo (distress) e dunque gli obblighi delle autorità statali, informate dei casi SAR aperti, di intervenire con la massima sollecitudine al fine di salvaguardare la vita umana in mare.
La distinzione tra eventi di ricerca e soccorso in caso di distress (pericolo per i naufraghi) ed “eventi migratori” è resa ancora più confusa dalla creazione di zone SAR (di ricerca e salvataggio) da parte della Libia, nel 2018, e più recentemente della Tunisia. Aree di responsabilità per i salvataggi in acque internazionali, non spazi di giurisdizione esclusiva, che questi Stati non sono evidentemente in grado di presidiare con mezzi navali ed aerei propri, e di coordinare con autonomi centri (MRCC), senza l’aiuto degli Stati europei, di Frontex, e dell’Italia in prima linea. I più recenti piani operativi di Frontex, Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, rendono ancora più opache le responsabilità delle autorità di coordinamento degli Stati costieri.
Il grado di coesione e la cooperazione operativa tra le autorità nazionali e i centri di coordinamento di Frontex sono così evoluti nella direzione di rendere sempre più impenetrabili i processi decisionali, sui quali adesso sono stati presentati esposti sostenuti da associazioni, come Front-Lex e Refugees Libya, che lamentano lo scambio di migliaia di mail e la comunicazione del tracciamento delle imbarcazioni cariche di migranti, in acque internazionali, alle autorità libiche. In modo da agevolare vere e proprie intercettazioni che si concludono con la riconduzione dei naufraghi in territorio libico e con la loro riconsegna a milizie che non garantiscono alcun rispetto dei diritti umani, che peraltro in Libia non sono neppure garantiti dalle diverse autorità, militari e politiche, che si dividono il paese.
Al contrario, si sono registrate lacune nei contatti tra Frontex e gli Stati membri. In materia di cooperazione tra Frontex e le autorità nazionali, l’Ufficio del Mediatore dell’Unione europea ha adottato una decisione con la quale, prendendo spunto dalle stragi di Pylos (nave Adriana) e di Cutro, osserva che “è di fondamentale importanza che, nel contesto della risposta alle emergenze marittime e/o alle operazioni SAR, sia garantita la comunicazione tra Frontex (la squadra europea di sorveglianza) e le autorità nazionali competenti e che informazioni accurate e complete siano scambiate in modo tempestivo”.
Un “Tavolo tecnico interministeriale” o una Direttiva ministeriale non possono modificare la portata operativa degli obblighi di soccorso, a partire dalla definizione di distress o di evento SAR, e di tempestiva indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS- Place of safety) a carico degli Stati, e in Italia del ministro dell’interno. Tocca adesso ai giudici italiani ed europei indagare in piena autonomia sulle stragi e sui casi di mancato avvio delle operazioni di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, magari per la mancata dichiarazione di un evento SAR, o per l’esclusione di un caso di distress, mentre spetta all’opinione pubblica, almeno per quella parte che non accetta tesi preconfezionate, svolgere un continuo monitoraggio sugli sviluppi delle indagini e rinnovare per tutte le vittime ormai senza voce la richiesta di verità e giustizia.
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