“Chiedere è lecito, rispondere è cortesia” è un detto popolare che mi è stato insegnato da mio padre, e che mi è tornato in mente in questi giorni, quando ho avanzato alle istituzioni delle richieste nel mio ruolo di presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, due “cariche” con poco potere, ma che si possono ricoprire per passione, e fare le cose per passione è comunque sempre un grande privilegio.
Queste in particolare le mie richieste: la prima al Capo del DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), che come Conferenza abbiamo incontrato online a febbraio, quando ha preso l’impegno a rivedere noi rappresentanti del volontariato con regolarità, ogni due mesi almeno. La mia richiesta è appunto di incontrarci di nuovo, e di parlare della partecipazione del volontariato al Tavolo istituito per dare esecuzione alla sentenza 10/2024 sui colloqui riservati delle persone detenute con le loro compagne/i. La seconda era rivolta all’Ufficio del nuovo Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e chiedeva di poterlo intervistare, come redazione di un giornale realizzato sì in carcere, ma regolarmente iscritto al Tribunale e con la dignità e la competenza di un qualsiasi altro giornale. Ebbene, non abbiamo avuto nessuna risposta.
Evidentemente concetti come cortesia, o come quella tenerezza a cui ha fatto riferimento Papa Francesco, dicendo che “la tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”, sono concetti lontani da una parte consistente delle istituzioni. Ed è un peccato, perché l’amministrazione oggi, parlo di quella penitenziaria, ha un’immagine macchiata da suicidi, violenze, sovraffollamento, e avrebbe bisogno di parlare un linguaggio nuovo, di trovare le parole giuste per coinvolgere tutti gli attori in gioco, operatori, volontari, persone detenute, loro famigliari, in quella rivoluzione che la sentenza della Corte Costituzionale in qualche modo prefigura, quando parla della desertificazione affettiva prodotta dal carcere e apre la strada all’irrompere dell’amore nelle galere.
Il Tavolo comunque è stato istituito, ma con una specie di segretezza poco comprensibile, a meno che non si pensi che la politica e le istituzioni penitenziarie abbiano poca voglia di attuare la rivoluzione dei colloqui, di aprire all’intimità dei rapporti affettivi, di restituire alle persone detenute la loro “interezza” dopo averle in questi anni svuotate di ogni sentimento. Un Tavolo composto di tanti funzionari, giuristi, Polizia Penitenziaria (i nomi e le cariche li conosciamo già, i segreti nel nostro Paese non li mantiene quasi nessuno), ma la domanda è: perché non c’è nessuno di quel Terzo Settore, che se oggi proclamasse uno sciopero in carcere renderebbe evidente e sconvolgente quel deserto, nel quale si trasformerebbero gli Istituti di pena senza la sua presenza?
Che cosa mi porto a casa della Giornata di studi “Io non so parlar d’amore”
Penso che se l’informazione facesse parlare prima di tutto i famigliari, come abbiamo fatto noi, mettendo insieme figli, compagne, madri, con tutto il loro carico di sofferenza, forse nel nostro Paese si formerebbe un clima diverso, un po’ come successe quando ci fu il referendum sul divorzio e l’Italia si rivelò più avanti rispetto ai propri governanti
È stato bello vedere il 17 maggio tante persone detenute portare le proprie testimonianze senza “farsi sconti” rispetto alle responsabilità, ma anche emozionante vedere i loro famigliari, quelli che noi non vogliamo più considerare “vittime secondarie” perché la loro è una condizione di vittime a tutti gli effetti, che a volte devono sopportare anche la “riprovazione sociale” senza avere nessuna colpa. Come hanno raccontato Angelica, figlia di un detenuto che ha deciso di “sfruttare” la sua esperienza diventando educatrice, come Stefania, madre di un ragazzo che ha perso la vita a 22 anni, stritolato dalla galera, o come Zaccaria, che è entrato in carcere con la sua classe nel progetto con le scuole (e il nostro grazie va al Comune, presente con l’assessora Margherita Colonnello, che lo sostiene da anni) e poi ha avuto il coraggio di raccontare che lui quei posti li ha conosciuti bene, da figlio di una persona detenuta.
Come in tutte le iniziative di Ristretti, c’è stata una fusione importante tra gli interventi dei “tecnici” e le testimonianze di chi vive sulla sua pelle il dolore della galera. E i tecnici non hanno fatto troppo gli “addetti ai lavori”, ma hanno parlato alla testa e al cuore di tutti, anche toccando temi incandescenti come “la possibilità di mantenere dietro le sbarre una relazione amorosa che non sia amputata della propria dimensione sessuale (Andrea Pugiotto)”, perché questo ha fatto prima di tutto la Corte Costituzionale, e di questo siamo grati a Fabio Gianfilippi, che ha saputo sollevare magistralmente la questione di incostituzionalità legata ai colloqui con i controlli a vista.
Mi ha colpito vedere come tutti hanno saputo trovare “le parole giuste” per trattare anche i temi più spinosi: da Chiara Gregori, sessuologa che è stata capace con grande delicatezza di liberare da ogni ipocrisia il tema della sessualità negata, a Roberto Cornelli, a cui chiediamo di esserci a fianco nell’affrontare “il punto di vista degli operatori e delle operatrici di Polizia Penitenziaria (…) per consentire una discussione pubblica sulle polizie, in modo da rafforzare i presupposti democratici della loro legittimità”. E questo significa anche creare degli anticorpi rispetto alla violenza, a partire dall’imparare a guardare dentro al carcere, come ha detto il direttore dell’IPM di Treviso, Girolamo Monaco, perché “guardare significa vigilare, stare attenti, vegliare; guardare significa aver cura”.
La Giornata di studi è stata anche una occasione di formazione, riconosciuta dall’Ordine dei Giornalisti. E noi abbiamo chiamato a portare la loro esperienza due narratori, di quelli che sanno raccontare “l’irraccontabile”, Massimo Cirri di Caterpillar su Radio 2 e poi Francesca Melandri, che ha saputo rappresentare proprio il dolore dei famigliari combattuti tra il disagio e la sofferenza per il male commesso dai loro cari e il “dovere” di continuare a volergli bene.
Il carcere fa diventare davvero le persone “analfabeti amorosi”. Ridurre i danni provocati dalla galera, forse a questo servirà la sentenza della Corte Costituzionale. Che sembra poco, e invece è un’enormità, perché permette alle persone detenute di ritrovare la loro umanità, la bellezza di un abbraccio, il piacere di un bacio che non sia rubato.
Nella Giornata di studi “Io non so parlar d’amore…” il carcere tutto, dal direttore, alla Polizia penitenziaria, agli operatori delle diverse aree, alle persone detenute, ai loro famigliari, al Terzo Settore, ai magistrati di sorveglianza, agli avvocati hanno provato a confrontarsi e a dialogare: nessuno si illude che la strada sia spianata, tutt’altro, ma quella sentenza deve essere rispettata, e lo deve essere rapidamente, per “scongelare” quel diritto all’amore e al sesso che la Costituzione riconosce a tutti.
Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti