Riprendo, per tracciare qualche linea di riflessione sul futuro che ci aspetta dopo il 13 Novembre di Parigi, le parole dell’appello che, appena qualche giorno fa, Alfonso Gianni lanciava dal suo profilo facebook: «pacifisti di tutto il mondo, mobilitiamoci!». È il calco di un motto di ben altro spessore e portata, come tutti sanno; non di meno, è anche il tentativo di rappresentare una sollecitazione pressante e accorata, che, da democratici, progressisti, marxisti, pacifisti o nonviolenti che siamo, non possiamo permetterci di fare cadere nel vuoto, se davvero intendiamo contrastare la minaccia di una guerra e, con essa, il precipizio di una escalation di vasta portata che rischia di travolgere l’intero Mediterraneo e Vicino Oriente, e se, allo stesso tempo, presumiamo di potere offrire qualche idea, qualche proposta, qualche orientamento, che non vadano nel senso, banale e mortifero, insensato e inefficace, della guerra, ma piuttosto nella direzione, che sembra molto più pregnante e assai più promettente, della estinzione del terrorismo e del superamento della violenza.
Dopo quel vero e proprio atto di “guerra nella guerra”, che è stato l’abbattimento del caccia russo da parte della aviazione turca, è ormai evidente a tutti, ed occorre segnalarlo e ribadirlo, che la linea rossa, di cui si è tanto discusso, tra tavoli diplomatici e confronti accademici, è stata superata: forze della NATO e forze russe, che perseguono obiettivi e strategie diverse non solo sul fronte siriano e che stanno da tempo giocando un risiko delicatissimo in diversi punti caldi del pianeta, si sono scontrate, per la prima volta, direttamente. Da questo momento, dunque, numerosi scenari si aprono e diventano possibili: forse ancora non del tutto probabili, ad ogni apparente evidenza non imminenti, ma senza dubbio possibili. La “terza guerra mondiale” a pezzi, già in corso da tempo, peraltro, almeno a partire dallo scoppio della guerra per procura, a molti riverberi internazionali, sul suolo e nei cieli della Siria (2011), e già entrata nel cuore stesso dell’Europa, con il golpe di Majdan, l’avvento al potere delle formazioni neo-naziste a Kiev e la guerra del Donbass (2014), rischia adesso di precipitare e condensare in una vera e propria escalation, cui la tragedia degli esecrabili attentati terroristici del 13 Novembre a Parigi, rischia di fare da clamoroso detonatore e propellente.
Dopo il 13 Novembre, infatti, la guerra è, ancora più di prima, una clamorosa stortura: ha così poco senso pensare di colpire il terrorismo – che non ha territori e confini consolidati, nella sua miriade di nuclei e di cellule diffuse, sparse potenzialmente ovunque, e i suoi seguaci, quelli effettivi, che sono già nelle segnalazioni dell’intelligence, e quelli potenziali, che in quelle segnalazioni ci dovrebbero finire – sganciando bombe a destra e manca, da far dubitare della sincerità dei proclami e far sorgere il dubbio che altri siano gli interessi retro-stanti e le finalità non-dichiarate. Per questo (non solo, ma anche) è necessaria un’alternativa. Nell’appello dal quale siamo partiti, vengono, in estrema sintesi, richiamate alcune imprescindibili “guide per l’azione”: «l’ONU deve intervenire per spezzare la spirale terrorismo-guerra. Così, l’Unione Europea, se finalmente decidesse di giocare un ruolo per la pace. I movimenti pacifisti di tutto il mondo sono chiamati a mobilitarsi». Si tratta di principi generali che vanno declinati e l’impegno cui sono chiamate oggi le forze, in generale, contro la guerra e per la pace, consiste proprio in questo: abbinare alla mobilitazione civica, alla sensibilizzazione dell’intero spettro dell’opinione pubblica, alla pressione sulle istituzioni per abbandonare la pulsione militare e militarista ed abbracciare piuttosto una soluzione diplomatica e politica, anche una capacità di riflessione e di analisi, di orientamento e di proposta.
Continuano ad esistere, purtroppo, tentazioni eurocentriche che non aiutano il confronto e il dialogo e, dunque, non concorrono positivamente a offrire riflessioni e proposte: sono quelle, ad esempio, di chi antepone la destituzione di un governo legittimo, come quello di Assad in Siria, alla riapertura dei canali della diplomazia con tutti gli attori regionali, a partire dalla Siria stessa, nel cui territorio, tra l’altro, la popolazione civile, l’esercito regolare, le formazioni curde a Nord, stanno pagando un pesante tributo di sangue, nella lotta quotidiana contro il terrorismo reazionario (non chiamiamolo islamico, per piacere). Qui l’eurocentrismo di certi giudizi, che pure va nominato, sembra evidente: chi ha diritto di decidere del proprio Paese, in questo caso la Siria: noi “occidentali” o i siriani? O quelle di chi continua a ritenere che la “comunità internazionale” possa ridursi alla “comunità occidentale”, magari “euro-atlantica”, più eventuali propaggini, senza accorgersi che la NATO, di cui la Turchia è parte integrante e alle cui azioni di guerra gli Stati Uniti, non più tardi di qualche giorno fa, hanno continuato a manifestare comprensione, è parte del problema e non della soluzione.
Non c’è prospettiva da offrire che non parta dal dialogo, che consenta di esplorare le vie del superamento della violenza e della trasformazione del conflitto, della definizione di nuovi spazi di convivenza e, in definitiva, della pace: dal confronto con i popoli e le culture della “sponda Sud”, dall’ascolto di proposte e suggerimenti che non imprigionino questa parte del mondo nella gabbia in cui, volontariamente o fatalmente, si è rinchiusa. Questo terreno è un cimento, al tempo stesso, per i movimenti sociali e per le forze politiche, che, nell’analisi dello scenario e nelle proposte da formulare, possono condividere un terreno unitario e strutturare un posizionamento, senza incertezza, contro la guerra (a partire dalla guerra di aggressione) e per la pace (essenzialmente come pace positiva, “pace con giustizia”). Il panorama sembra piuttosto desolante. Le destre, nelle loro varie articolazioni, almeno in Italia, non hanno nulla di positivo da offrire: da Forza Italia, che declina la sua proposta tutta in termini di militarizzazione e rinnovato impegno nelle missioni di guerra che già coinvolgono il nostro Paese, al Movimento 5 Stelle, che, tra il tutto e il contrario di tutto che, di volta in volta, avanza, ha già chiarito che «non sta scritto da nessuna parte che popolazioni diverse debbano vivere sotto la stessa bandiera» e ha pure ribadito che «la classe politica ce l’ha con le forze di polizia, molti carabinieri non sono in grado di colpire un bersaglio in movimento» e servirebbe maggiore controllo «su quei centri che assegnano lo status di rifugiato».
L’eco delle proposte e delle riflessioni della parte più matura del movimento per la pace e contro la guerra sembra invece risuonare in diversi passaggi della mozione presentata dalla “Sinistra Italiana” alla Camera il 24 Novembre, ove si delinea, per la prima volta, un quadro complessivo e una griglia coerente di misure a più livelli, per prevenire la guerra e contrastare il terrorismo senza cedere alle pulsioni militari e securitarie. Si tratta di dodici punti: no alla guerra e ad ogni avventura militare, nella convinzione, vero punto di partenza, che questa spirale guerra-terrorismo va spezzata, che non si può estinguere la violenza e il terrorismo con altra violenza (quella militare) e altro terrore (quello delle bombe); una conferenza regionale di pace con tutti gli attori, direttamente e indirettamente, coinvolti, perché solo un processo all’interno del quale tutti possano riconoscersi potrà alla fine essere riconosciuto da tutti; riconoscimento dello Stato di Palestina, altro, vero, punto di partenza, troppo spesso, nelle ultime settimane, colpevolmente dimenticato; dialogo in Siria, senza la precondizione della destituzione di Assad e in linea con i fondamentali nove punti dell’Intesa di Vienna; blocco di ogni traffico, vendita di armi e finanziamenti a Daesh e i suoi sponsor; diplomazia e coordinamento di intelligence (che non vuol dire schedatura di tutti i cittadini europei); misure per il dialogo inter-culturale e inter-religioso per prevenire la marginalizzazione e la radicalizzazione.
Come si vede, il punto non è reagire e contrattaccare, ma prevenire ed estinguere. Prima di ogni altra cosa, minando alle fondamenta le basi materiali su cui Daesh (che non è fenomeno religioso, ma terrorismo politico, oltre che militare, e dunque esercita un potere e controlla comunità e territori, tra Iraq e Siria) si fonda: un volume di affari stimato in circa 50 milioni di dollari. Come ha ben spiegato Loretta Napoleoni, Daesh ha il controllo di questi territori e, quindi, delle risorse che ospitano, che vuol dire soprattutto petrolio, che poi contrabbanda; ha sostenitori internazionali sia attraverso finanziamenti diretti sia attraverso mercato nero; e i fondi così accumulati vengono investiti non solo in addestramenti e armamenti, ma anche in controllo del territorio e servizi alle comunità poste direttamente sotto il proprio “potere”. Come conclude la stessa Napoleoni: «una vera e propria economia di guerra: un meccanismo che noi europei col tempo abbiamo dimenticato».
Dunque, ha ragione Alfonso Gianni: «mobilitiamoci!». E soprattutto proviamo a farlo in modo capillare ed efficace, perché la lotta contro il terrorismo e la guerra è anche lotta per la democrazia.
Link utili:
L’appello alla mobilitazione:
http://www.sinistralavoro.it/pacifisti-di-tutto-il-mondo-mobilitiamoci
Il documento di Forza Italia:
http://www.gruppopdl-berlusconipresidente.it/?p=35617
La posizione dei Cinque Stelle:
http://www.beppegrillo.it/2014/08/isis_che_fare.html
La mozione di Sinistra Italiana:
http://www.sinistraecologialiberta.it/wp-content/uploads/2015/11/Mozione-Daesh.pdf
L’Intesa di Vienna sulla Siria:
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/siria-vertice-per-cessate-fuoco.aspx