Siamo in guerra? Un interrogativo rimbalzato un po’ dappertutto dopo le stragi parigine. Siamo in guerra, senza punto interrogativo, è quanto ha comunicato ieri la presidenza francese, con tutto ciò che ne consegue in termini di richieste agli alleati europei e annunci di stati di emergenza permanenti e costituzionalizzati. E allora, poiché la guerra è una cosa tremendamente seria, forse è il caso che su queste domande e risposte ci facciamo qualche ragionamento onesto, senza farci guidare dalle emozioni del momento e, soprattutto, senza quella nauseante ipocrisia che qui in Europa ci piace tanto.
Ebbene sì, siamo in guerra, ma non da oggi e nemmeno da ieri, ma almeno dall’altro ieri. Semplicemente, finché la guerra era una cosa che accadeva lontano da casa nostra, preferivamo chiamarla con altri nomi, tipo intervento di polizia o missione della comunità internazionale e qualche volta ci abbiamo appiccicato pure l’aggettivo “umanitario”. Appunto, qui in Europa ci piace l’ipocrisia e ci piace pure l’asimmetria, quella del discorso, quella della morale e persino quella del dolore. Non esitiamo a chiamare la strage di Parigi un “attacco all’umanità”, ma la strage di Beirut del giorno prima l’abbiamo considerata poco più che normale amministrazione. Per non parlare della macelleria a ciclo continuo in Siria, della quale ci accorgiamo soltanto quando i profughi ci infastidiscono bussando alla nostra porta, oppure delle stragi anti curde in Turchia, che evidentemente vengono percepite come cose che non ci riguardano.
Noi, cioè i nostri governi, i nostri stati, dagli Usa all’Italia, dalla Nato alle varie coalizioni dei volenterosi, facciamo la guerra in Medio Oriente da quasi 25 anni, cioè da quel 15 gennaio 1991 quando Bush padre scatenò la cosiddetta prima guerra del Golfo. Una guerra che molti di noi si ricordano a malapena, ma che in Iraq seminò morte e distruzione a dosi massicce, prima con le bombe e, poi, con l’embargo. Da allora non ce ne siamo più andati da quell’area del mondo. Infatti, nel 2001, dopo gli attentati dell’11 settembre e con Bush figlio ci fu l’attacco e l’invasione dell’Afghanistan, dove la guerra è tuttora in corso. Poi, nel 2003, si scatenò la guerra all’Iraq e ancora oggi il paese è dilaniato dai conflitti armati. Senza contare tutti gli altri interventi militari, dalle continue azioni dei droni nei più diversi paesi fino all’intervento militare in Libia del 2011, forzato dalla Francia di Sarkozy, per rovesciare Gheddafi.
Ma contro chi siamo in guerra? Una domanda apparentemente banale e qui il 99% della popolazione risponderebbe con un categorico “contro il terrorismo islamico”. Eppure, guardando alla realtà di questo quarto di secolo di guerre, le cose appaiono molto diversamente. L’Iraq di Saddam Hussein era un regime violento e oppressivo, ma laico e in conflitto con Al Qaeda e l’islamismo jihadista. Fu attaccato e invaso grazie a una montagna di menzogne –ormai è reo confesso persino Tony Blair- e per motivi ben più tangibili e materiali che “la lotta al terrorismo”. In Siria, fino a ieri, non si può dire che la priorità fosse la lotta a Daesh (Isis) o ad Al Nusra (affiliata a Al Qaeda), i quali, anzi, fino a un certo punto vennero persino favoriti pur di abbattere il regime di Assad. Della Libia meglio non parlare, perché lì la Nato fu determinante per rovesciare il regime di Gheddafi, senza però avere uno straccio di idea su cosa fare dopo. E, infine, stendiamo un velo pietoso sulla politica miope –per non dire altro- nei confronti della questione palestinese.
E i “nostri alleati”? E i “paesi musulmani moderati”? L’alleato numero 1 dell’Occidente è da tempo immemorabile l’oscurantista e wahabita Arabia Saudita, che però, guarda caso, è anche il numero 1 mondiale degli sponsor dell’islamismo jihadista. Un fiume di denari di origine saudita è arrivato (e probabilmente arriva ancora) anche a Daesh. Già, perché il nemico dell’Arabia Saudita non è Daesh, il nemico è l’Iran e quindi anche Assad. Ma va bene così, a quanto pare, perché in Arabia Saudita c’è un sacco di petrolio e di business, compreso il commercio delle armi, visto che la petro-monarchia saudita è anche il numero 1 mondiale delle importazioni di armamenti. Secondo voi, perché Renzi due settimane fa si è recato in visita di stato a Riad?
E poi c’è anche un altro alleato con i fiocchi, cioè la Turchia, uno dei più importanti membri della Nato. Erdogan in questi anni non ha mai combattuto Daesh, anzi, il confine turco-siriano era praticamente un’autostrada per i traffici e il passaggio di reclute di Daesh. Anche il regime di Erdogan ha delle mire egemoniche sulla Sira, ma soprattutto ha un suo nemico principale: i curdi. E così, mentre i curdi combattono contro Daesh, la Turchia combatte i curdi. È successo e continua a succedere, persino in questi ultimissimi giorni: mentre il G20 era riunito proprio in Turchia, piovevano bombe sul Pkk, il quale aveva appena partecipato, insieme alle unità curdo-irachene e curdo-siriane, alla liberazione di Sinjar (la città dove un anno fa si consumò il massacro degli yazidi ad opera di Daesh).
Ebbene sì, siamo in guerra e da tempo. E la guerra il più delle volte non l’abbiamo fatta a Daesh e a quelli come loro, anzi. Il disastro delle guerre dei Bush, alle quali l’Italia e l’Europa hanno partecipato, e di quelle che sono seguite hanno indubbiamente avuto un ruolo decisivo perché progetti e organizzazioni fascistoidi potessero trovare spazio, forza e consenso. Hanno (abbiamo) sconvolto un’intera area del mondo per garantire all’Occidente il controllo delle fonti energetiche, hanno (abbiamo) coccolato dittatori feroci finché garantivano i nostri interessi, salvo poi rovesciarli quando non servivano più, magari armando en passant anche gli islamisti jihadisti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Quando i grandi organi di informazione sparano nelle prime pagine la domanda “Siamo in guerra?”, suggerendo già la riposta, o quando i governi iniziano a dichiarare che d’ora in poi dobbiamo considerarci in guerra, allora dobbiamo diffidare e ricordarci di quelle cose, cioè dell’ultimo quarto di secolo di guerra. Non per moralismo o per “pacifismo imbelle”, ma per semplice realismo. Vale a dire, per non sprofondare ulteriormente, per non assolvere i responsabili e dimenticare le responsabilità e per non ripetere i disastri, non cadere nella trappola degli stati d’emergenza permanenti e per non alimentare la narrazione nefasta dei profittatori politici e degli imbecilli che strillano “bastardi islamici”, inneggiano alla Fallaci e incitano alla caccia al migrante.
La logica della guerra semplifica tutto e rimuove la complessità delle cose, annebbia la mente e arruola le coscienze. Dobbiamo rifiutarla. Daesh e quello che rappresenta va combattuto e battuto, ma costruendo soluzioni di pace, dando speranza e riconoscendo dignità a chi vive in quelle terre e non negandogli ogni futuro, sostenendo le resistenze popolari e i progetti sociali e politici aperti, come quello del Rojava, e non bombardandoli e, infine, combattendo a casa nostra i discorsi di chi vuole trasformare i nostri territori in campi di battaglia tra italiani e stranieri, tra cristiani e musulmani, tra “noi” e “loro”. Beninteso, non sono semplicemente cose da chiedere a chi sta al governo, ma dovranno essere anzitutto terreni di costruzione di percorsi, iniziative e di mobilitazioni dal basso.