Interveniamo qui, in qualità di economisti, per mettere in guardia contro i pericoli insiti nel Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governabilità dell’Unione economica e monetaria (TSCG). Questo patto di bilancio segna una nuova tappa di due offensive: quella dei liberali, da una parte, contro la pratica keynesiana della politica economica, e dall’altra quella delle autorità europee contro l’autonomia delle politiche di bilancio nazionali.

Questo trattato non affronta le cause della crisi finanziaria: la cecità e l’avidità dei mercati finanziari, l’esplosione delle bolle, quella finanziaria e quella immobiliare, indotte dalla finanziarizzazione, l’aumento delle disuguaglianze di reddito dovuto alla concorrenza sfrenata tra paesi, a sua volta derivante dalla mondializzazione.

Non prende di petto le cause della crisi della zona euro: l’assenza di un reale coordinamento delle politiche economiche aventi l’occupazione come obiettivo primario, lo squilibrio provocato dalla ricerca di eccedenze dei paesi del Nord, il divieto inserito nella Costituzione europea di finanziamenti diretti agli Stati da parte della BCE, il che permette alla speculazione di scatenarsi mentre è impotente contro gli Stati Uniti, il Giappone, il Regno Unito, che pure sono più indebitati della zona euro.

Il Trattato rende definitive le politiche di austerità seguite negli ultimi tre anni, che sprofondano l’Europa in una recessione senza fine, aggravano la messa in discussione del modello sociale europeo, fanno precipitare milioni di europei, in primo luogo i giovani, nella disoccupazione, e milioni di famiglie nella povertà.

Il Patto di bilancia poggia su una diagnosi errata. Colpevole sarebbe la mancanza di rigore di bilancio. Eppure, prima della crisi i paesi della zona euro non erano caratterizzati da deficit pubblici particolarmente alti: nei tre anni precedenti la crisi (2004-07), gli Stati Uniti avevano un deficit pari al 2,8% del PIL, il Regno Unito del 2,9%, il Giappone del 3,6%, la zona euro dell’1,5%, nettamente inferiore al totale degli investimenti pubblici o al livello richiesto per stabilizzare il debito. L’unico paese a presentare un deficit più elevato era la Grecia. Di fatto, le autorità europee, polarizzate sul cieco rispetto di norme arbitrarie, interessate ad affermare il proprio controllo sulle politiche nazionali, hanno lasciato crescere gli squilibri  tra i paesi del Nord Europa, che accumulavano eccedenze, e quelli del Sud trascinati dalla bolla immobiliare, negando l’esistenza dei pericoli che la deregolamentazione finanziaria comportava.

Secondo l’articolo 1 del Trattato, le regole sarebbero “destinate a rafforzare il coordinamento delle politiche economiche”. Ma costrizioni matematiche su debiti e deficit pubblici, che non tengono conto della situazione economica, non possono essere considerate come coordinamento di politiche economiche.

Secondo l’articolo 3, i paesi dovranno mantenere un quasi-equilibrio delle finanze pubbliche, cioè un deficit strutturale inferiore allo 0,5% del PIL, cosa che non ha nessun fondamento economico. La vera “regola aurea delle finanze pubbliche”, al contrario, giustifica il fatto che gli investimenti pubblici siano finanziati attraverso l’indebitamento. Questo, nel caso della Francia, autorizza un indebitamento strutturale nell’ordine del 2,4% del PIL.

Lo stesso articolo impone ai paesi “una rapida convergenza verso quest’obiettivo”, convergenza che verrebbe proposta dalla Commissione senza tener conto della situazione congiunturale. I paesi perderebbero dunque la loro libertà d’azione. Così, la Francia, per esempio, si vede costretta a raggiungere entro il 2013 un deficit del 3%, quindi a praticare una politica recessiva in periodo di depressione, tanto più recessiva in quanto le previsioni economiche sono deboli.

Verrebbe instaurato un meccanismo automatico per ridurre il deficit. Di nuovo, un paese si vedrebbe imposta una politica di bilancio. Se ha un deficit strutturale pari a 3 punti del PIL, dovrà l’anno successivo presentare un deficit di 2 punti, cioè fare in modo da perdere un punto, quale che sia la sua situazione economica. Un paese colpito da un rallentamento economico non avrà diritto di applicare una politica di sostegno.

L’obiettivo del Trattato è proprio quello di realizzare il sogno di sempre dei liberali: paralizzare le politiche di bilancio, imporre a qualunque costo l’equilibrio di bilancio. Questo è voltare le spalle agli insegnamenti di 75 anni di teoria macroeconomica.

Il trattato si fonda sulla nozione di deficit strutturale, cioè il saldo pubblico corretto per il saldo ciclico. In pratica, il deficit pubblico del paese se la sua produzione fosse in situazione di equilibrio, nella sua produzione potenziale. Valutato, secondo diverse teorie, con metodi diversi, il suo valore dipende dalla metodica utilizzata, e risulta molto problematico da ottenere, specie in periodi cruciali, quelli di depressione o di shock macroeconomici. Di fatto, saranno le valutazioni della Commisssione a dover essere utilizzate. Ma queste presentano due difetti: variano notevolmente nel corso del tempo, per esempio le stime di produzione potenziale per il 2006 sono state poi fortemente ridotte per il 2008; sono certo sempre molto vicine alla produzione effettiva, poiché questo metodo considera come strutturale la diminuzione di capitale dovuta a crollo degli investimenti durante una crisi: sottostima il deficit congiunturale, obbligando a delle politiche di prociclicità [ridurre gli impieghi finanziari. N.d.T]. Così, la Commissione ritiene che, per il 2012, lo scarto tra produzione potenziale e produzione effettiva è solo del 2,8% in Francia (quindi un deficit strutturale del 3%), mentre altre metodiche arrivano ad uno scarto dell’8%, cioè un deficit strutturale dello 0,5%. La politica economica può essere lasciata in balia di queste valutazioni?

L’obiettivo del deficit strutturale potrà arrivare all’1% nel caso il debito fosse inferiore al 60% del PIL. Un paese con una crescita media del 2% e un’inflazione del 2%, e che mantiene costantemente un deficit del’1%, vede il suo debito andare verso il 25% del PIL. Ma nulla garantisce che l’equilibrio macroeconomico possa essere mantenuto con dei valori a priori: un debito del 25% e un deficit dell’1% del PIL. Inserire questo concetto nella Costituzione ha altrettanto fondamento che scriverci: “gli uomini dovranno pesare 70 kg e le donne 50”.

Gli stati membri dovranno inserire la norma di equilibrio di bilancio e il meccanismo di correzione automatico nelle loro rispettive Costituzioni o, se ciò non fosse possibile, in un dispositivo permanente e vincolante. Così, misure aleatorie, inapplicabili, senza fondamento economico, rimarrebbero immutabili, incise nella pietra.

I paesi membri dovranno creare istituzioni indipendenti incaricate di verificare il rispetto della noma sull’equilibrio di bilancio e del percorso di adeguamento. É un ulteriore passo verso la totale tecnocratizzazione della politica economica. Queste istituzioni indipendenti avranno il diritto di rimettere in discussione la norma, se quest’ultima non corrisponde alle necessità congiunturali?

Secondo l’articolo 4, un paese il cui coefficiente debito/PIL supera il 60% del PIL dovrà ridurlo di almeno un ventesimo di questo scarto ogni anno. Questo presuppone che un coefficiente del 60% rappresenti una cifra ottimale realizzabile da tutti i paesi. Tuttavia, paesi come l’Italia o il Belgio presentavano da decenni un debito pubblico del 100% del PIL (il Giappone addirittura del 200%), senza disequilibri, poiché questi debiti corrispondevano a forte capacità di risparmio delle famiglie.

Secondo l’articolo 5, un paese sotto “procedura di debito eccessivo” (PDE) dovrà sottoporre il suo bilancio e un programmma di riforme strutturali alla Commissione e al Consiglio, che dovranno approvarli e controllarne l’applicazione. Quest’articolo è un’ulteriore arma utile a imporre ai popoli delle riforme liberali. Oggi, la quasi totalità dei paesi dell’UE (21 su 27) si trovano sottoposti a PDE; in reltà non hanno bisogno di riforme liberali, ma di crescita sociale ed economica. A meno che il Trattato non intenda, per riforme strutturali, misure atte a spezzare la dominazione dei mercati finanziari, ad aumentare il prelievo fiscale sui più ricchi e le grandi imprese, a finanziare la transizione ecologica.

Secondo l’articolo 7, le indicazioni della Commissione saranno automaticamente adottate tranne nel caso in cui si manifesti una maggioranza qualificata contraria, il paese interessato non avendo però diritto di voto. Così, in pratica, la Commissione avrà sempre l’ultima parola.

Questo progetto impone politiche di bilancio quasi automatiche, e impedisce qualunque politica di sostegno. Quest’ultime, però, sono indispensabili per la stabilizzazione economica. Alla fine del 2008, il FMI, il G20 e la Commissione europea hanno chiesto ai paesi di intraprendere queste politiche. Adesso, dopo quattro anni, bisogna vietarle?

In base al trattato, ogni paese deve adottare autonomamente misure restrittive senza tener conto della propria situazione congiunturale e delle politiche degli altri partner. Il trattato pone implicitamente l’ipotesi che il moltiplicatore keynesiano sia nullo, che le politiche di bilancio restrittive non abbiano impatto sulla congiuntura economica. Oggi, a metà 2012, questo richiede che la maggior parte dei paesi pratichino politiche di austerità quando invece la causa dei deficit pubblici è globalmente un livello insufficiente di produzione e di occupazione dovuto all’esplosione della bolla finanziaria.

La volontà del nuovo governo francese di rinegoziare il TSCG ha portato il 29 giugno ad un Patto per la crescita e l’occupazione. Nonostante il titolo, non si tratta di un patto simmetrico al Patto di bilancio. Non comporta alcun obiettivo specifico in termini di occupazione o di crescita. Essenzialmente, non fa altro che riprendere progetti già intrapresi, generalmente di ispirazione liberale: la strategia 2020, la necessità di garantire la fattibilità del sistema pensionistico (in pratica, innalzare l’età pensionistica o ridurre l’ammontare delle pensioni), migliorare la qualità della spesa pubblica (che spesso significa ridurre le spese sociali giudicate improduttive, aumentando gli aiuti alle imprese), favorire la mobilità della manod’opera, aprire alla concorrenza in materia di servizi, energia, appalti pubblici. Il Patto riconosce che non c’è accordo su un tassa sulle transazioni finanziarie; non fa altro che aprire la porta a una cooperazione forzata, un accordo tra alcuni paesi, senza Regno Unito e Lussemburgo, cosa che ne limiterà fortemente la portata.

Le misure per la ripresa, a dirla tutta, sono limitate, per non dire assenti. Si parla di 120 miliardi, cioè l’1% del PIL della zona euro, ma spalmati su un lasso di tempo indefinito, mentre i programmi di austerità nazionali rappresentano 240 miliardi l’anno. Questi 120 miliardi si dividono tra un aumento previsto di 60 miliardi della capacità di prestito della BEI (Banca Europea per gli Investimenti) grazie a un aumento del suo capitale di 10 miliardi; una emissione prevista di obbligazioni per 5 miliardi, destinata a finanziare progetti di infrastrutture, e infine l’assegnazione di 55 milioni di fondi strutturali destinati a “misure per la crescita”, fondi che erano già disponibili. Nei tre casi, non c’è nulla che faccia pensare che altri fondi saranno mobilizzati. Così, questo Patto appare soprattutto come una concessione di facciata che permetta al governo francese di ratificare il Patto di bilancio.

Il Trattato non mette in discussione l’assenza di garanzie dei debiti pubblici da parte della BCE; non prevede emissione di euro-obbligazioni; il Meccanismo di Solidarietà non prevede aiuti che per quei paesi che abbiano ratificato e rispettato il trattato. Il paese così aiutato perderà qualsiasi autonomia, dovrà sottomettere la propria politica economica alla Troika (Commissione, BCE, FMI) e dovrà impegnarsi in una politica di restrizione che, come dimostrano gli esempi di Grecia, Irlanda e Portogallo, lo farà sprofondare nella recessione e nella miseria. Il dispositivo predisposto non spezza la speculazione. La BCE subordina il proprio sostegno ai paesi i cui tassi d’interesse si infiammano a riforme liberali e a piani di austerità sempre più drastici che li spingono nella depressione.

Il Trattato impone l’attuazione sul lungo periodo di politiche di austerità in Europa che non solo spezzeranno la produttività della zona, non solo aggraveranno ancor più gli squilibri nei paesi più fragili e aumenteranno le tensioni in Europa, ma impediranno anche ambiziose politiche di investimenti ecologici per l’avvenire. Gli stati membri possono risolversi a un Trattato che paralizza per sempre le loro politiche di bilancio per convincere i mercati del loro futuro rigore? Possono accettare di vedersi confiscare le redini dei propri bilanci dopo aver perso quelle della politica monetaria?

Gli “Economistes Atterrés” (“economisti atterriti”)

Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia

Fonte originale : http://atterres.org/article/les-economistes-atterr%C3%A9s-mettent-en-garde-contre-le-trait%C3%A9-budg%C3%A9taire