Qualche giorno fa si è parlato della serie di documentari realizzati da Francesco De Augustinis: “Desertificazione” del 2019, “One Earth: tutto è connesso” del 2021 e l’ultima sua realizzazione della fine dell’anno trascorso, Until the End of the World”, che proprio in questi giorni viene presentato in l’Italia e all’estero.

Per me Francesco è uno di quei giovani del quale fa piacere parlare. Ha iniziato il suo percorso già dai tempi universitari, partecipando a diverse attività che lo hanno formato sotto il profilo giornalistico. Tutt’ora collabora come giornalista freelance con testate nazionali (Corriere della Sera, Repubblica, Il Salvagente, La Stampa, Rai, Huffingtonpost) e internazionali (The Guardian, The Independent, The Telegraph). I temi che tratta sono sempre relativi al sistema agroalimentare e della sostenibilità ambientale.

Gli ho posto alcune domande relative al suo lavoro d’inchiesta con i filmati sui mali della terra prodotti dall’uomo.

Da cosa e quando nasce il tuo interesse per il lavoro che hai intrapreso? Come osservi l’interesse dei giovani sulle tematiche sullo stato del pianeta?

Lavoro da oltre dieci anni come giornalista freelance specializzato in questioni che riguardano il sistema alimentare, una tematica ancora troppo poco raccontata. Il modo in cui produciamo il cibo è cambiato molto negli ultimi decenni, con l’esplosione delle coltivazioni e degli allevamenti industriali. Questo sta portando gravi conseguenze al pianeta, che riguardano la crisi climatica, la deforestazione, il crollo della biodiversità, l’inaridimento dei suoli, l’aumento delle malattie e molti altri. Negli ultimi anni, per fortuna, si è molto sviluppato il dibattito e l’attenzione, anche dei giovani, su questi temi, segno che le cose possono cambiare anche in fretta.

Da “Deforestazione” del 2019 passando a “One Earth: tutto è connesso” del 2021  e arrivando oggi a “Until the End of the World” quali prospettive hai osservato per il futuro?

In questi ultimi anni è cambiato molto lo scenario, nel senso che c’è molta più consapevolezza sulle “colpe” e gli squilibri di un sistema alimentare estremamente centralizzato e industrializzato, votato al profitto, che produce danni ambientali e iniquità. Oggi persino le Nazioni Unite hanno detto a chiare lettere che il sistema alimentare va cambiato radicalmente, parlando di riduzione degli sprechi, di cambio delle diete (con riduzione del consumo dei prodotti di origine animale), di agroecologia. Purtroppo per ora questo appello non sta dando i risultati che dovrebbe, perché l’industria zootecnica e la produzione agricola altamente industrializzata continuano a crescere nel mondo, trainate da una domanda dell’Asia che cresce rapidamente per avvicinarsi ai modelli di consumo dell’Occidente.

Sul sito del Ministero del’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste si legge: «La possibilità di gestione di impianti in mare aperto teoricamente non pone limiti spaziali al suo sviluppo; anche il processo di modernizzazione dell’acquacoltura coincide con un processo di crescita scientifica e tecnologica che meglio permettono di controllare le varie fasi del ciclo vitale e di mettere a punto trattamenti di qualità, nonché di intensificare le produzioni». Con l’esperienza acquisita col nuovo documentario “Until the End of the World” qual’è la tua visione su questa dichiarazione?

L’Italia come tutti gli stati dell’Unione Europea appoggia con fondi nazionali e europei lo sviluppo dell’acquacoltura. Con il documentario abbiamo cercato di spiegare come questo appoggio incondizionato, avallato anche dalle Nazioni Unite, sia sostanzialmente sbagliato, perché la maggior parte degli allevamenti che ne beneficiano riguardano specie carnivore, come le trote, le spigole o le orate. Questo genere di allevamenti ha delle ripercussioni ambientali sugli ecosistemi dove si trovano le gabbie, in quanto gli allevamenti di spigole e orate sono quasi sempre collocati anche in Italia in tratti di mare riparati, come il golfo di Follonica o quello di Gaeta, dove le correnti sono deboli e il carico organico di feci e mangimi non consumati si accumula. Inoltre, allevare specie carnivore come queste significa usare enormi quantità di pesce selvatico per produrre mangime, creando problemi di sovrasfruttamento della pesca in altre regioni del Pianeta.

So che anche il tema dell’inquinamento delle plastiche in mare, ma anche delle microplastiche che si stanno ammassando nei suoi fondali, sono di tuo interesse: pensi di dedicare un tuo lavoro anche su questo tema?

Per adesso non ho in programma un lavoro su questo tema, che è strettamente collegato con il tema della pesca (v. documentario SeaSpiracy).

Hai mai ricevuto denunce dai produttori/inquinatori e, se sì, quai risvolti hanno avuto?

No, tutte le storie a cui lavoro sono sempre documentare e suffragate da dati, pertanto non ho mai avuto problemi di querele.

Il tuo è un lavoro dedicato alla denuncia dei danni ambientali ai quattro elementi (fuoco, acqua terra e aria): hai mai pensato di rivolgerti alla Corte Penale Internazionale, che si sta occupando del danno ambientale, supportata da Stop Ecocide?

Io lavoro come giornalista, pertanto azioni di attivismo come un ricorso alla Corte Penale Internazionale dovrebbero più essere appannaggio di altri settori della società civile. Conosco StopEcocide ma superficialmente, avendo letto quello di che fanno.