Negli stessi giorni in cui in Italia impazzavano le censure e la guerra alle parole, dell’ambasciata israeliana prima e della Rai dopo, perché dal palco sanremese il giovane Ghali osava evocare nella sua canzone i bombardamenti sugli ospedali e perfino chiedere lo “stop al genocidio” a Gaza, Edgar Morin, ospite al Festival del libro africano di Marrakech, dall’alto dei suoi 102 anni scandiva parole limpide e nette: “Sono indignato per il fatto che coloro che rappresentano i discendenti di un popolo che è stato perseguitato nei secoli per motivi religiosi o razziali, oggi decisori dello Stato d’Israele, possano non solo colonizzare tutto un popolo, scacciarlo in parte dalla sua terra – volendolo scacciare una volta per tutte – ma anche, dopo il massacro del 7 ottobre, commettere una vera e propria carneficina, massiccia, della popolazione di Gaza, continuando senza sosta”. E indicava il compito al quale nessun operatore della cultura e dell’informazione può sottrarsi: “L’unica cosa che possiamo fare, se non riusciamo a resistere concretamente a questa tragedia orribile, è testimoniare. Resistere con la mente, senza mistificazioni, ma avendo il coraggio di guardare in faccia la realtà per continuare a testimoniare”.
Rispetto alla catastrofe palestinese che si svolge da mesi in mondovisione, per non mistificare la realtà è dunque necessario avere il coraggio di scandire parole di pace, ossia dire la verità sui fatti in corso, senza temere la censura e senza operare autocensura preventiva. Si tratta di pronunciare parole precise, come il nostro governo non è stato in grado di fare all’Assemblea delle Nazioni Unite: “Cessare il fuoco, fermare il massacro, arrestare la carneficina, impedire il genocidio, punire i crimini di guerra”. Parole che accomunano Edgar Morin ad Antonio Guterres, Papa Francesco, agli ebrei per la pace e ai milioni di persone che nel mondo manifestano per resistere sia alla violenza che alla menzogna. In Palestina e ovunque.
Dopo due anni di escalation bellica in Ucraina, in seguito all’invasione dell’esercito russo, in una guerra senza vincitori – tranne l’industria bellica che, come ha detto Stoltenberg alla Conferenza di Monaco sulla “sicurezza”, deve passare a una vera e propria economia di guerra – ma con centinaia di migliaia di vinti, ossia le giovani vittime di entrambi gli eserciti; dopo quattro mesi e mezzo di carneficina israeliana in Palestina che si trasforma man mano in genocidio, come paventato dalla Corte Internazionale di Giustizia le cui prescrizioni sono ignorate da Israele, è necessario resistere alle mistificazioni di tutte le propagande di guerra. Resistere al bellicismo ideologico montante nei media, alle minimizzazioni delle vittime, alla giustificazione della violenza, all’aumento delle spese militari a discapito di quelle civili e guardare in faccia la realtà. Scandendo e disvelando la verità orribile di ogni guerra e dei suoi massacri.
E’ all’interno di questo scenario di guerra globale in rapida espansione che arriva l’anniversario del 24 febbraio per il quale la Rete Italiana Pace e disarmo convoca la Giornata di mobilitazione nazionale per il cessate il fuoco in Palestina e in Ucraina per fermare la criminale follia di tutte le guerre, bloccare la corsa al riarmo, riconoscere lo Stato di Palestina e mettere al bando le armi nucleari. Dentro a questa mobilitazione, a Roma si svolge anche il XXVII Congresso nazionale del Movimento Nonviolento – l’organizzazione fondata da Aldo Capitini nel lontano 1962 – sul tema dell’obiezione alla guerra oggi e della priorità della nonviolenza. Tra i testimoni di pace, che non si stancano di dire la verità contro la guerra, a Roma sarà presente Olga Karatch, Premio Langer 2023, testimone bielorussa della Campagna di Obiezione alla guerra a difesa dei diritti umani di chi rifiuta la mobilitazione militare e la coscrizione obbligatoria, ed a Reggio Emilia ci sarà Robi Damelin portavoce dell’organizzazione “mista” palestinese-israeliana Parents Circle Families Forum, composta da parenti delle vittime del fuoco “nemico” che testimoniano insieme da anni la necessità della pace, attraverso processi nonviolenti di riconciliazione.
Esperienze di pratiche di pace, come ha insegnato e praticato anche Johan Galtung il fondatore e pioniere del peace studies, gli studi internazionali per la pace e mediatore di decine di conflitti, morto sabato 17 febbraio all’età di novantatré anni. Un altro grande vecchio che fino alla fine ha scandito parole precise: “Essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione. E’ necessario costruire la pace con mezzi pacifici. (…) Non esiste alcun conflitto – per quanto l’odio sia interiorizzato, il comportamento violento istituzionalizzato e il tema del conflitto insolubile – che non possa essere trasformato attraverso la nonviolenza” (Pace con mezzi pacifici). Si tratta, dunque, di scandire dal basso la verità per ribaltare la narrazione dominante e tossica sulla guerra e la violenza “necessarie”, solo perché funzionali alle logiche di potenza dei governi e ai profitti di chi ci guadagna.