La Gran Bretagna si prepara a votare. Tra fine marzo e inizio aprile sono state svolte tutte le procedure costituzionali di rito: il Parlamento è stato sciolto, i deputati hanno perso il diritto ad essere chiamati «onorevoli» e il primo ministro David Cameron si è recato a Buckingham Palace per informare la Regina sulla data delle elezioni, previste per il 7 maggio. Ora la campagna elettorale è entrata nella sua fase finale.
Ci sono almeno quattro fatti importanti che bisogna conoscere per capire chi potrebbe uscire vincitore da questa tornata elettorale. La prima, ovviamente, riguarda il governo uscente. Queste elezioni si tengono a cinque anni di distanza dalle precedenti, svolte nel maggio del 2010. In quella circostanza il Partito Conservatore di David Cameron aveva ottenuto la maggioranza relativa dei voti, senza tuttavia raggiungere la maggioranza assoluta. Si era così eletto il primo hung Parliament della storia inglese dal 1974. Un hung Parliament è un parlamento dove nessun partito ha la maggioranza assoluta dei seggi necessaria per governare. Nel 2010, dopo alcuni giorni di convulse trattative, David Cameron era riuscito a formare un governo di coalizione assieme al Partito LiberalDemocratico di Nick Clegg, ponendo così fine a tredici anni di governo laburista. Nei successivi cinque anni di governo questa insolita coalizione ha tagliato la spesa per la sanità, aumentato le tasse universitarie e diminuito i posti di lavoro nel settore pubblico. Il risultato è stato una rapida crescita delle persone occupate nel settore privato. Oggi in Regno Unito il tasso di disoccupazione è sceso al 6 per cento, il più basso dal 2008 e comunque uno dei più bassi in Europa.
Certo, il governo Cameron è passato anche attraverso altre questioni dirimenti: il Post ne cita otto (i rapporti con l’Unione Europea, il referendum sull’indipendenza della Scozia, i matrimoni gay, la guerra in Siria, l’ISIS, le intercettazioni del News of the World, le Olimpiadi di Londra, le rivolte dell’estate 2011) e il Guardian addirittura dodici. Alcune di queste questioni, soprattutto il rapporto di Londra con Edimburgo e Bruxelles, torneranno per forza di cose in cima all’agenda del governo che sarà eletto in maggio.
Per ora, tuttavia, il tema che sta dominando la campagna elettorale in corso è l’andamento dell’economia. La grande attenzione all’economia potrebbe essere una condizione favorevole al primo ministro uscente. Il mantra ripetuto da David Cameron in tutti i comizi e dibattiti è il seguente: il nostro governo ha rimesso in piedi l’economia dopo la recessione del 2008/2009, ma il nostro lavoro non è finito. Viceversa, il suo rivale laburista Miliband cerca di convincere quanti si sentono lasciati fuori dal rampante neoliberismo di questo governo e si impegna a alzare il salario minimo e potenziare il sistema sanitario nazionale.
I sondaggi, tuttavia, mostrano che nessuno di questi due partiti guadagnerà la maggioranza assoluta. Così si prospetta un governo di minoranza, o un’altra coalizione forzata come quella che ha permesso a Conservatori e LiberalDemocratici di governare assieme negli ultimi cinque anni. E quella della frammentazione politica è la terza questione importante nelle elezioni di maggio. Questa tornata elettorale potrebbe dare un’ulteriore scossa al bipartitismo che ha sempre caratterizzato il Regno Unito. Fino a non molto tempo fa, Laburisti e Conservatori si dividevano la grandissima maggioranza dei voti, con picchi dell’80%. Alle elezioni del 2010, Laburisti e Conservatori presero quasi il 60% dei voti, con il partito Liberale al 22% e tutti gli altri attorno al 10%. Questa volta gli altri partiti (Verdi, Scottish National Party, Playd Cymru e UKIP) sono dati attorno al 25%, 30% se includiamo anche i LiberalDemocratici e avranno quindi un ruolo cruciale nel determinare la formazione di un governo. Lo Scottish National Party in particolare, un partito che appena otto mesi fa aveva perso la sua battaglia principale nel referendum per l’indipendenza della Scozia, potrebbe emergere come l’improbabile «kingmaker» in un’elezione incertissima. Gli analisti osservano che il Regno Unito sta diventando sempre più italiano: a differenza del passato, per governare Westminster questa volta serviranno accordi e alleanze tra partiti che rappresentano interessi diversi e, in alcuni casi, piuttosto differenti tra loro.
E tuttavia sarebbe profondamente sbagliato guardare a queste elezioni semplicemente attraverso le percentuali di voti ricevuti da ogni singolo partito. Perché quello britannico è un sistema elettorale piuttosto complesso, che penalizza le formazioni minori, ma avvantaggia le realtà locali con forte radicamento territoriale. Si tratta di un sistema maggioritario con collegi uninominali che, come tutti i sistemi maggioritari, presenta il rischio che la maggioranza in Parlamento non corrisponda alla maggioranza nel paese: nel 1951, per esempio, i laburisti ottennero su base nazionale il 48,9% contro il 48% dei conservatori, ma questi ultimi conquistarono una maggioranza schiacciante alla Camera, 321 seggi. Nel 2001, il Labour conquistò 413 deputati su 659 ottenendo solo il 43% per cento dei voti su scala nazionale. Questa volta partiti come i Verdi o l’Ukip, che hanno un buon numero di consensi distribuiti su tutto il territorio ma non sono radicati in nessuno specifico distretto elettorale, potrebbero finire per raccogliere solo una manciata di seggi.
Insomma: il sistema elettorale avrà una funzione cruciale in queste elezioni e dovrebbe favorire ancora una volta i partiti principali, Conservatori e Laburisti. Con ogni probabilità sarà dunque uno di queste due partiti ad ottenere il mandato per formare un governo dopo il 7 maggio. La questione cruciale è con chi: esistono differenze profonde tra gli altri partiti in corsa e la natura della coalizione avrà un impatto profondo sulla strategia economica del prossimo governo, oltre che sulle decisioni in merito al rapporto della Gran Bretagna con l’Unione Europea e con la Scozia. Nelle prossime settimane, prima e dopo le elezioni, a determinare vincitori e sconfitti saranno probabilmente complessi giochi delle alleanze e negoziati tra un partito e l’altro per appoggiarsi a vicenda. Sono elezioni confuse e non è detto che l’esito del 7 maggio serva a fare chiarezza al riguardo.
Lorenzo Piccoli