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«Mai indifferenti», appello di voci ebraiche per la pace: “non vogliamo restare in silenzio… ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso”
Il 27 gennaio è stata una scadenza particolarmente dolorosa da affrontare: a che serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania?
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, dopo la ricorrenza del Giorno della Memoria e nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso d’isolamento. Il 7 ottobre, non solo gli israeliani ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’attacco terroristico di Hamas e abbiamo provato dolore, rabbia e sconcerto. E la risposta del governo israeliano ci ha sconvolti: Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 28.000 palestinesi e molti soldati israeliani, mentre a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra e la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora incerta. Purtroppo sembra che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della diaspora non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le sue conseguenze per il futuro. I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola «genocidio», ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie. Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare voci critiche e allarmate provenienti da Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso. Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni. Per questo non vogliamo restare in silenzio. Abbiamo provato forte difficoltà di fronte all’appena trascorso Giorno della Memoria: non possiamo condividere la modalità con cui lo si vive se lo si riduce a una celebrazione rituale e vuota. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico. Il 27 gennaio 2024 è stato una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini? Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti, anche personali, con parte della sinistra. Ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti d’indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli. Per combattere l’odio antiebraico crescente in questo preciso momento, pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti. Non siamo d’accordo con le indicazioni che l’Unione delle Comunità ebraiche italiane ha diffuso per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene che cosa sia l’antisemitismo e non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei. In questo momento, quando tutto è difficile, stiamo vicino a chi soffre provando a pensare e sentire insieme. Per ulteriori adesioni maiindifferenti6@gmail.com
leggi i firmatari dell’appello su “il manifesto”
Cannoni italiani contro i palestinesi di Gaza. La conferma giunge direttamente dalla Marina Militare di Israele mediante una intervista ad un ufficiale israeliano
Alle operazioni di guerra contro Gaza partecipano le unità navali armate con i cannoni di OTO Melara del gruppo italiano Leonardo SpA
In un’intervista al sito specializzato Israel Defense, il tenente colonnello Steven in forza alla 3^ flotta della Marina Militare israeliana, si è soffermato sulla tipologia e l’armamento delle unità navali impegnate nelle operazioni di guerra contro Gaza. “Nella 3* flotta ci sono attualmente 15 corvette missilistiche della classe Sa’ar – modelli 4.5, 5, e 6, le ultime arrivate”, ha dichiarato l’ufficiale israeliano. “Le corvette di classe 4.5 sono equipaggiate con gli stessi mezzi della classe 6, eccetto per un elicottero sul ponte, Ogni unità è armata con un cannone da 76mm, un cannone Typhoon da 25 mm, con capacità offensive e difensive. sistemi elettronici EL/M e per la guerra anti-sottomarini”. “La maggior parte dei sistemi d’arma – ha concluso Steven – è stata prodotta da industrie israeliane, eccetto i cannoni da 76mm, che sono stati prodotti invece dall’azienda italiana OTO Melara”. Gli OTOMelara 76/62 sono cannoni multiruolo prodotti dall’omonima società del gruppo Leonardo SpA con quartier generale a Roma e stabilimenti a La Spezia e Brescia. Questi strumenti bellici sono caratterizzati da una cadenza di tiro molto elevata, soprattutto nella versione Super Rapido (120 colpi al minuto), per la “difesa” antiaerea e anti-missile e il bombardamento navale e costiero. Nel corso della sua intervista a Israel Defense, il tenente colonnello Steven ha rivelato altri inquietanti particolari sulle operazioni di guerra condotte delle unità navali israeliane. “Nei primi giorni di guerra le navi sotto il mio comando sono state impegnate in missioni difensive usando il fuoco, principalmente per impedire ai terroristi di avvicinarsi alle forze armate di Israele”, ha dichiarato l’ufficiale. “Tuttavia, molto rapidamente, la forza navale si è spostata dalla difesa all’offesa. Noi siamo in guerra da quattro mesi adesso e già tre settimane dopo l’inizio dei combattimenti noi partecipavamo alla battaglia con una duplice missione: sorveglianza e fuoco”. “Le nostre capacità di sorveglianza rivestono una grande importanza, perché possiamo osservare la Striscia di Gaza da occidente, dal mare”, ha aggiunto il tenente colonnello Steven. “Dda una corvetta missilistica possiamo vedere qualsiasi cosa. Possiamo osservare le persone così come i pattugliatori fuori dalla costa. Posiamo vedere sia il nemico che le nostre forze armate. Anche se ci sono pessime condizioni atmosferiche, specie adesso che siamo in inverno, la nostra sorveglianza rimane efficace perché tutti i sistemi sono funzionanti anche quando la nave ondeggia”. L’ufficiale israeliano ha concluso la sua intervista spiegando che la missione primaria odierna della flotta navale è quella di fornire il supporto di fuoco, con una potenza che non ha precedenti nella storia della Marina Militare di Tel Aviv. “Solo io posso vedere da ovest gli obiettivi terroristi nella Striscia di Gaza”, ha dichiarato cinicamente Steven. “Quando spariamo, così come tutte le forze armate di Israele, stiamo molto attenti di non colpire i civili non coinvolti nel conflitto; il fuoco è accurato ed efficace. Quando i cannoni sparano (cioè quelli da 76 mm di OTO Melara/Leonardo, nda), non c’è nessuno sul ponte delle unità navali. Tutti i cannoni sono controllati da remoto dalle posizioni di comando. Gli stessi vessilli sono a pilotaggio remoto. Non si può dire che non ci sia il rischio di sparare nelle unità navali. Ma noi sappiamo come difenderci, e fino adesso, dall’inizio della guerra, non c’è stato nessun incidente nella nostra flotta”. I morti, si sa, stanno tutti dall’altra parte, a Gaza. E sono civili, non combattenti, donne e bambini.
fonte: antoniomazzeoblog
L’agricoltura e l’ambiente hanno perso la partita: la protesta, su cui soffia l’estrema destra, viene incanalata contro i vincoli ambientali e climatici
I trattori contro l’Europa, mentre il settore è a fine corsa, fagocitato dall’agrobusiness da una parte, dalla grande distribuzione dall’altra, e anche dai bassi prezzi esteri […] d’altro canto la stessa piccola impresa agricola deve anch’essa acquisire gli input produttivi (macchinari agricoli, sementi, fertilizzanti, disinfestanti, imballaggi, ecc.) da grandi complessi industriali che dettano i prezzi […] sino a non molti decenni fa i paesi ricchi apparivano dominanti nel settore, mentre più di recente assistiamo, come del resto in tutta l’economia, ad un’accelerazione nell’attività dei paesi nuovi
Il mondo agricolo è nella sostanza molto eterogeneo e comprende al suo interno delle unità di piccole dimensioni da una parte, ma dall’altra anche delle imprese sempre più grandi e i due settori presentano aspetti e problemi molto differenziati: tra l’altro le seconde continuano a divorare le prime. È in effetti in atto da tempo un processo di concentrazione nel settore produttivo, con la crescita di poche grandi imprese globali o comunque ad ampio intervento territoriale, che si orientano verso un modello agroindustriale; tra l’altro, più del 50% delle terre è oggi occupata da unità produttive dalle dimensioni di più di 500 ettari, mentre quelle inferiori ai due ettari, il 87% del totale, occupano soltanto il 12% della superficie agraria (Bezat, 2022). Vi si registra anche una concentrazione dei profitti. Va segnalato che il 77% delle unità agricole di piccole dimensioni a livello globale si trovano in regioni dove l’acqua è scarsa. Tra le conseguenze del cattivo modello di sviluppo agroindustriale si può rilevare un grande livello di inquinamento sotto forma di emissione di gas serra e fertilizzanti chimici, e ancora scarsità d’acqua, degradazione dei suoli, spreco del cibo. L’agricoltura fornisce un grande contributo al cambiamento climatico in relazione alle emissioni inquinanti provocate dalla deforestazione, dai prodotti chimici utilizzati nel settore, dagli incendi dei residui agricoli, dalla gestione degli allevamenti. Si stima che almeno il 30% delle emissioni inquinanti complessive nel mondo abbia origine nel settore (Ahuja, 2019), in particolare in quello dell’allevamento bovino, mentre per produrre un chilo di carne bisogna tra l’altro impiegare 15.000 litri di acqua. Più in generale il settore agroindustriale assorbe oggi il 70% del consumo di acqua dolce nel mondo.
leggi integralmente su: sbilanciamoci
L’impatto delle disuguaglianze sulla condizione dei minori. Inchiesta-2022 sulle famiglie italiane: 1 su 100 dichiara di non avere i soldi per i beni necessari per la scuola. Nel mezzogiorno il numero dei dichiaranti si accresce sensibilmente, registrando il 2,2 nelle isole e l’1,7 nel sud peninsulare
A primo acchito I dati appaiono ben sottostimati. Come fanno osservare i ricercatori: « dietro ogni statistica sulla deprivazione c’è un genitore che deve rispondere se sia in grado o no di permettere a suo figlio di “partecipare a gite ed eventi scolastici”, o di “invitare a casa degli amici per giocare e mangiare insieme”, oppure di avere “un posto tranquillo con spazio e luce a sufficienza per fare i compiti” »
Le disparità economiche hanno un impatto diretto anche sulle famiglie con figli. La distribuzione dei redditi è un aspetto cruciale se si pensa al fatto che per le famiglie con minori a carico siano necessarie più risorse economiche per poter arrivare a fine mese senza difficoltà. Stando alle rilevazioni campionarie di Istat, nel 2022 il 25,9% delle famiglie dichiarano che hanno bisogno di oltre duemila euro al mese per non trovarsi in condizione di difficoltà economica. Quota che sale al 30,4% per i nuclei monogenitoriali e al 39,4% per le coppie con figli. La presenza di figli è quindi una delle variabili che determina maggiormente il bisogno economico di una famiglia. Così come il loro numero. In coincidenza con gli ultimi dati Istat, che indicano come al crescere del numero di figli aumentino anche le risorse necessarie per poter mantenere la famiglia. Tra i nuclei con un unico figlio, il 35,9% indica come soglia minima indispensabile per arrivare a fine mese un reddito che va dai duemila euro in su. Con due figli, questa quota sale al 39,7%. Dai 3 figli in su, quasi la metà delle famiglie (43,6%) dichiara come necessari oltre duemila euro per arrivare a fine mese. La difficoltà di arrivare a fine mese influisce anche su come una famiglia spende i propri soldi, favorendo le spese per i beni necessari per la sussistenza. Va inoltre evidenziato che questi dati vanno presi con cautela perché potrebbero essere sottostimati, un fenomeno spesso sottolineato nella letteratura in materia. Può infatti essere difficile per una famiglia dichiarare di non poter provvedere per la vita dei propri figli, come viene evidenziato anche dall’Unicef. In questo quadro, la disparità educativa è un elemento cruciale. Povertà educativa ed economica si influenzano a vicenda, diminuendo le possibilità di bambini e ragazzi di usufruire a pieno di tutte le opportunità di apprendimento. L’istruzione ha quindi un ruolo cruciale per favorire migliori condizioni economiche e lavorative future e attivare meccanismi di mobilità sociale. Garantire un apprendimento di qualità a tutti non soltanto interrompe questa tendenza, ingiusta per i minori e per le loro famiglie, ma consente anche di ridurre gli effetti economici e sociali negativi che si creano all’interno di una comunità.
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