Sulle deviazioni e gli abusi nell’azione di contrasto del terrorismo da parte di polizia e magistratura negli anni Settanta e Ottanta questo sito è intervenuto in passato con un documentato articolo di Pino Narducci (volerelaluna.it), relativo a fatti di tortura intervenuti nel maggio 1978, durante le indagini per il sequestro e l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro. Oltre tre anni dopo, nel dicembre 1981-gennaio 1982, fatti analoghi – di vera e propria, prolungata e reiterata, tortura – sono avvenuti a Padova durante il sequestro, da parte delle Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente, del generale James Lee Dozier e dopo la sua liberazione. Anche questa volta a ricostruirli, nell’articolo di seguito pubblicato (ripreso dalla rivista Questione Giustizia), è Pino Narducci, magistrato, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia. I fatti sono a dir poco agghiaccianti. Sono cambiati i tempi e i luoghi, ma restano immutati le tecniche e, almeno in parte, i protagonisti della vicenda del maggio 1978. Gli episodi di tortura sono certamente circoscritti e non mettono in dubbio la correttezza di tante altre indagini – la maggioranza – condotte in quegli anni difficili. Ma la loro rimozione, operata nei decenni scorsi dal mondo politico e giudiziario nella sua (quasi) totalità, non solo oltraggia la verità ma impedisce la piena comprensione degli anni di piombo e di quello che hanno significato nella vita del Paese. Come abbiamo scritto nella presentazione del precedente articolo, l’apertura di un confronto serio e approfondito sul punto è ineludibile: non per modificare il giudizio sul carattere e sulla follia del terrorismo di quegli anni ma «perché – per dirlo con parole di Pietro Ingrao – il rispetto rigoroso delle regole non è una concessione ai nemici della democrazia ma un’esigenza irrinunciabile per uno Stato che voglia dirsi democratico. Per questo in una democrazia matura e consapevole non possono essere ammesse zone di opacità e non detti» (la redazione-VLL)
Nelle conclusioni del suo ben documentato articolo, messo in primo piano sulle recenti pagine di Volere La Luna e che invitiamo a leggere integralmente, Pino Narducci scrive:
« […] A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe politica “aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità… quando non extralegali… vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi, sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura”. La magistratura non è senza colpe perché “se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta” ».[*]
Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di Stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.
Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una brigatista».